“Se dovessi stilare una classifica dei migliori dieci album del folk apocalittico (impresa assai ardua, considerati i labili e confusi confini che circoscrivono il genere), inserirei senza esitazione questo “Beauty Reaps the Blood of Solitude”…”
Così iniziava la mia recensione sui “Nature and Organisation”. Era il 30 novembre scorso e, pochi giorni dopo, con mia grande sorpresa, scorsi in edicola il ghigno beffardo di Douglas P. sulla copertina del numero di dicembre di Blow Up! Devo dire che ho apprezzato il gesto, ossia che una rivista non di settore come questa avesse deciso di dedicare una rassegna ad un sotto-genere di nicchia come il neofolk, fenomeno rigorosamente underground e spesso snobbato dai “salotti bene” della musica.
Il compito di Paolo Bertoni, l’autore dell’articolo, è stato semplice e complesso al tempo stesso. Da un lato il neofolk non è più terreno vergine: svariati contributi, negli ultimi anni, hanno cercato di illustrare il fenomeno, fornendo un adeguato inquadramento entro il quale muoversi. Senza scomodare il non tradotto “Looking for Europe. Neofolk und Hintergrunde” di Andreas Diesel e Dieter Gerten, e guardando alle sole pubblicazioni redatte in lingua italiana, possiamo citare “Lucifer over London” di Antonello Cresti e “Death in June: Nascosto tra le Rune”, biografia di Douglas Pearce curata da Aldo Chimenti. Dall’altro lato, molte ombre rimangono da dissolvere e l’argomento si presta ancora a diverse chiavi di lettura e percorsi interpretativi personali.
Intanto Bertoni/Blow Up decidono di parlare di “Folk Noir” e non di neofolk. L’etichetta (apprendo da Wikipedia) è stata coniata dal fotografo David Mearns per descrivere una fase della carriera dei Sol Invictus (che in effetti ad un certo punto deviarono verso un sound più maturo e composito, capace di assimilare elementi jazz, neoclassici, cantautoriali e derivati dalla tradizione folcloristica popolare, inglese e non). Il termine Folk Noir verrà in seguito adottato da molte riviste per continuare a riferirsi al fenomeno neofolk nel suo complesso, nell’intento probabilmente di evitare quelle connotazioni “scomode” (che prestano il fianco ad interpretazioni ideologiche) con cui l’intero genere si è andato ad identificare nel tempo. Ma sei nei fatti lo scritto di Bertoni passa in rassegna le varie estrinsecazioni del neofolk “classico”, non facendo fra l’altro riferimento ai dischi di mezzo dei Sol Invictus, né a quelli delle band legate alla Tursa Records (che sono le sole opere a poter essere definiti “Folk Noir” in senso letterale), non si capisce il perché non si debba serenamente prendere il toro per le corna ed affrontare in modo onesto l’argomento. Non era forse “conveniente” per Blow Up occuparsi apertamente di neofolk? Stento a crederlo, apprezzando l’indipendenza intellettuale e il coraggio da sempre manifestati dalla rivista, ma viene il dubbio che intorno a questo genere ronzino ancora pregiudizi e timori che non hanno senso di esistere se si vuol fare giornalismo in modo obiettivo. A mio parere, la correttezza metodologica di intitolare l’articolo “Folk Noir” è pari a quella adottata da chi si ritrovasse ad intitolare “Rock Baroque” una rassegna sul progressive rock!
Bertoni del resto dice del Folk Noir: “…un genere che tanti preferiscono definire neofolk, forse così stemperando la rilevanza della matrice post-punk di taglio dark che è di fatto l’humus in cui si genera”. Cosa a mio avviso solo parzialmente vera. Pearce e Wakeford suonavano punk nei Crisis e i primi Death in June assumevano sembianze inequivocabilmente post-punk, ma registrato questo dato di fatto, non si può tralasciare l’altro retroterra culturale fondamentale per la genesi del genere: l’industrial. Ricordiamo solamente che era proprio l’industrial dei pionieri della seconda metà degli anni settanta che vedeva quel periodo storico come la fase terminale di una malattia che infettava l’Occidente, la sua storia, la sua cultura. L’adozione provocatoria di immagini e simboli legati alla guerra, al nazismo, all’occultismo, al satanismo, alla pornografia (si abbiano in mente le performance estreme di Throbbing Gristle e successivamente di Psychic TV) era un pilastro fondante della cultura industriale e post-industriale. Ed è lecito pensare che proprio da quelle nefande fucine il neofolk abbia pescato a piene mani.
Del resto Bertoni procede con una scrittura tortuosa, brillante e ricca di contenuti, una scrittura, in definitiva, degna di una rivista di caratura superiore quale è Blow Up: egli preferisce disseminare i singoli tasselli del mosaico lungo il suo cammino, in modo da consegnare una visione compiuta (ma ahimè frammentata) solo al termine della lettura. Peccato che molto sia solo accennato, sottointeso, dato per scontato, e che nel complesso la lettura non sia affatto scorrevole (l’uso della punteggiatura è a dir poco opinabile!). Mi chiedo quanto possa essere utile un approccio del genere, risultando lo scritto ostico per i neofiti e nebuloso per gli appassionati.
Lungi da pretese di esaustività (che sono impossibili per ogni rassegna che intenda inquadrare un qualsiasi argomento in così poche pagine), c’è da premettere anzitutto che non si parla dell’ennesima retrospettiva sui Beatles o sui Rolling Stones, di cui si sa già tutto, ma di un universo ignoto ai più e difficilmente comprensibile persino per chi lo segue con assiduità. Sarebbe stato dunque lecito aspettarsi una contestualizzazione storica e culturale più dettagliata, una più sistematica trattazione del tema, sia sul lato concettuale, che su quello prettamente musicale e stilistico. Da anni scrivo recensioni in questo ambito e noto che la domanda più gettonata è: “Ma che diavolo è il neofolk?”.
Questo per quanto riguarda la parte introduttiva. Passiamo adesso alla selezione delle venti opere individuate dall’autore. Per dare un’idea al lettore, le riporto di seguito: “Swastikas for Noddy” (Current 93), “Trees in Winter” (Sol Invictus), “But, What Ends When the Symbols Shatter?” (Death in June), “Gilded by the Sun” (Fire + Ice), “Beauty Reaps the Blood of Solitude” (Nature and Organisation), “The Force of Truth and Lies” (Strenght Through Joy), “Fire of Life” (Changes), “Luctamina in Rebus” (Argine), “:Emptiness:Emptiness:Emptiness:” (:Of the Wand & the Moon:), “Windzeit” (Forseti), “Nachtliche Junger” (Orplid), “Barbara Carmina” (Sangre Cavallum), “Unsere Feuer Brennen!” (Werkraum), “Notwendfeuer” (Darkwood), “Heiliger Wald” (Falkenstein), “Memoria” (Leger Des Heils), “:Jordansfrost:” (Sonne Hagal), “Schattenlieder” (Sturmpercht), “Born Again” (Blood Axis), “Die Aestetik der Herrschafts-Freheit” (Rome). Premesso che è sempre antipatico sindacare sulle singole scelte, e che in linea di massima accetto la selezione operata da Bertoni (un percorso dotato di senso, coerente e compiuto con raziocinio, padronanza dei contenuti e cognizione di causa), in merito ad un paio di mosse mi vedo costretto a dissentire.
Punto primo. Mi stupisce che come capofila della serie non compaiano i Death in June del “Brown Book”: non solo il primo album della storia che “tecnicamente” può essere definito “neofolk”, ma anche il manifesto comunemente riconosciuto del genere intero (lo stesso Blow Up, nei seicento dischi da avere del rock, aveva inserito quell’opera come rappresentante unico della categoria). Posso comunque capire la difficoltà dell’autore, la scelta non è sicuramente dovuta a negligenza: optare per “Brown Book” avrebbe comportato l’esclusione di “But, What Ends When the Symbols Shatter?” che del neofolk è letteralmente l’essenza. Ma anche ammesso questo, due potevano essere le soluzioni auspicabili: o fare uno strappo al ferreo rigore metodologico che impone di non considerare più di un album per artista (nel caso dei Death in June l’eccezione ci poteva anche stare, considerata la loro importanza per lo sviluppo del genere). Oppure aprire con “Brown Book” ed eventualmente inserire “Thunder Perfect Mind” dei Current 93 (al posto di “Swastikas for Noddy”) quale esemplare di neofolk maturo. Ma non contemplare il Brown Book è una scelta che, tornando alla metafora della rassegna sul rock progressivo, equivarrebbe ad escludere un'opera seminale e simbolicamente rappresentativa per il genere come “In the Court of the Crimson King”. In questo modo anche il periodo in cui viene circoscritta la rassegna risulta infine sfalsato, laddove sarebbe stato più corretto adottare come limiti temporali il 1987 e il 2011 (condivisibile in pieno la scelta di completare il tutto con l’opera-mondo di Rome, non solo utile compendio di quanto il genere abbia saputo combinare nel suoi quasi trent’anni di vita, ma anche ponte rivolto al futuro, verso una forma più matura e cantautoriale del neofolk).
Punto secondo. Essendo inclusi nella lista ben otto artisti di lingua tedesca (su venti!), mi pare che il discorso si sia troppo sbilanciato sul versante “teutonico”, andando a togliere spazio vitale ad importanti nomi che invece avrebbero meritato di presenziare. Vero è che Bertoni implicitamente giustifica questa scelta individuando un importante passaggio di testimone (coinciso con la fine della guerra fredda) fra i padri fondatori, interessati a sondare la disgregazione dei valori della Vecchia Europa, e i discepoli, che si sono rifugiati “nella sfera della mitologia e del neopaganesimo”. Vero, verissimo, ma per esplicare il concetto bastava anche la metà dei nomi menzionati (io mi sarei limitato ad includere Forseti, Orplid, Darkwood e Sonne Hagal). Cosicché dello spazio rimanente avrebbero potuto beneficiare altri artisti portatori di significative sfaccettature, come Boyd Rice (ricordiamo che nel famigerato “Music, Martinis and Misanthropy”, uscito sotto l’etichetta Boyd Rice & Friends, si suonava folk e non industrial, e vi partecipavano “pezzi da novanta” come Pearce, Moynihan, Wakeford e Rose McDowall!) o Andrew King (colto interprete della tradizione inglese, nonché indispensabile collaboratore di Wakeford in Sol Invictus e in altri suoi progetti). Oppure importanti esponenti della “scena d’oltre oceano” come Unto Ushes e In Gowan Ring (questi ultimi esclusi perché in possesso di “elementi legati al folk tradizionale ed alla psichedelia troppo marcati per rientrare in questa lista di essenziali”: ma allora, gli Argine o i Sangre Cavallum, che io non avrei considerato, non sono altrettanto “tradizionali”?). Non considerando che sarebbe stato interessante gettare uno sguardo anche sulle originali varianti offerte da Ordo Rosarius Equilibrio, In My Rosary e Spiritual Front (se proprio doveva essere rappresentata l’Italia!). Sempre da un punto di vista strettamente metodologico, non so quanto sia stato infine opportuno inserire una band come i Changes, da considerare (insieme ai Comus) più come dei precursori (visto che erano già stati attivi dal 1969 al 1974) che come dei protagonisti veri e propri del “movimento”.
In conclusione è doveroso rammentare l’intrinseca difficoltà che sta alla base di ogni impresa di questo tipo: impossibile accontentare tutti! Con i miei appunti ho solo inteso integrare un quadro già efficacemente delineato dal buon Paolo Bertoni che si è reso responsabile di un "sunto" che può certo fornire utili spunti per chi volesse approfondire l’argomento.
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