“Sotto questo sole è bello pedalare”, così cantava qualche anno fa Francesco Baccini in un misto tra leggera allegria e timido ecologismo. Ma il “pedalare” è l’unica cosa in comune che c’è tra questa simpatica canzonetta e l’ottimo e drammatico film di Boris Lojkine, un bravo documentarista francese, alla sua terza regia di un lungometraggio. Per il resto non c’è mai il sole in questa Parigi invernale, fredda e piovosa, a parte forse nell’ultima immagine del film (che sia una cauta speranza?) e non è neanche bello pedalare, in mezzo al traffico caotico, i clacson, le auto che sbucano da tutte le parti e gli autobus che sembrano braccarti, mentre percorri le loro corsie riservate.
Souleymane, immigrato dalla Guinea, in attesa di asilo politico, ryder in sub affitto, pedala più veloce che può in questa baraonda metropolitana, per consegnare più ordinazioni possibili e riuscire a mettere da parte i soldi necessari per ottenere i documenti “falsi” con cui tenterà di far credere di essere un rifugiato.
Con la mdp sempre addosso, che lo segue in questa corsa tra le strade di Parigi, e con il copione che dovrà recitare a memoria nel colloquio decisivo per il suo destino tra un paio di giorni, ripetuto continuamente come un mantra, anche noi spettatori veniamo catturati dalla stessa ansia del protagonista, sempre in affanno, ritardato da mille difficoltà, con pochissimi momenti di pausa, in cui non ha neanche il tempo di scambiare due battute con altri compatrioti, e decisamente troppo stanco la sera, quando riesce ad arrivare nel dormitorio pubblico, da poter a malapena interagire con chiunque.
Il film, girato con un realismo degno della miglior tradizione nostrana (facile il riferimento a Ladri di biciclette, con cui condivide mezzo di trasporto e condizione economica), anche se più a livello di contenuti che di realizzazione (nel neorealismo spadroneggiavano i piani sequenza, qui è il montaggio serrato a dettare legge), presenta una totale assenza della colonna sonora extra diegetica, a marcare ancora di più lo stretto contatto con la realtà.
L’epilogo finale, in parte anticipato all’inizio del film (con una chiusura circolare che ricorda grandi registi), arriva alla fine di un percorso pieno di ostacoli, dove però hanno trovato il loro giusto spazio anche i legami affettivi, sia amorosi che parentali (questi ultimi decisivi per la sua condizione di immigrato).
Il finale è anche una lezione da manuale di regia, la giovane donna che sottopone Souleymane al colloquio/interrogatorio resta pressoché impassibile per tutta la sua durata (con primi piani neutri), è il classico alternarsi di campi e controcampi tra lei e Souleymane, con l’aumentare dell’impaccio di quest’ultimo che va di pari passo con l’acuirsi della tensione filmica, fino a raggiungere il momento di commozione più alto e sincero.
Film come questi meriterebbero lo stesso successo vissuto dalle vecchie pellicole del neorealismo italiano, che tanto hanno contribuito a far conoscere al mondo intero la nostra situazione economica e sociale nel secondo dopoguerra. Allo stesso modo la larga diffusione di un film come “Histoire de Souleyman” aiuterebbe ad avvicinare le persone e a farle riflettere con maggior umiltà sul tema così scottante dell’immigrazione.
(visto in V.O. sottotitolato - titolo italiano: La storia di Souleymane)
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