Immagino che questo muro è una frontiera. La frontiera dell’amore per la vita e per quelle piccole cose che la compongono e che, a seconda dell’umore e della giornata, diventano inutili o utili. Mi arrampico, metto solo la testa fuori, i piedi scivolano sui mattoni lisci, ma tanto mi basta per guardare oltre e vedo, vedo bene, chiaro, che Boris Vian sta in piedi su di un altro muro - la frontiera-stazione che viene dopo - a suonare la sua tromba alla luna… non escono note, ma cocktail, fluidi luminosi, ragazze carine e il mondo si colora di armonia. La frontiera sulla quale Vian poggia i piedi è quella della curiosità, dell’amore verso tutto quello che non si conosce e non si è o non si è ancora. Quella frontiera è l’ultimo ostacolo prima della pace col mondo e Vian non la scavalca, non la supera, ma la domina, guarda quello che c’è ai due lati del muro, poi prende carta e penna e scolpisce ad acquerelli il suo mondo finto, ma perfettamente reale.

Questa è la storia di quanto la felicità possa assomigliare ad un’anguilla che ti sgorga dallo scarico del lavandino, risalendo i tubi, per mangiarti il dentifricio all’ananas.
Questa è una storia d'amore, di amore carnale e amore per la sola vita, che non definisce la vita perchè pensa solo a viverla …questa dannata vita. Questa storia è una critica spietata, efferata e narcisistica alla vita, puttana e mediocre, e di quanto questa faccia di tutto per scomparire dalla tua esistenza, per dileguarsi, tra fumi di gas di scarico che invadono le strade, alla prima occasione buona che le si presenta. Vian la prende per i capelli, la vita, e sforza il suo debole cuore per non farla scappare, per condividerla, per sentirla pulsare, per spiegare agli uomini che sono molto meglio di quello che gli hanno insegnato a pensare, che sono persone, esseri, e che dovrebbero inventare macchine per non lavorare, che dovrebbero impiegare il loro tempo solo per fare l’amore e per ascoltare le melodie di Duke Ellington.

Due ragazzi che si amano, la vita che si mette in mezzo, le stanze che diventano piccole e buie, una casa che scricchiola, un amico ossessionato da una specie di Sartre, i topi che diventano ostili, una ricchezza dissipata per curare una malattia improvvisa e maligna, il lavoro che arriva solo per peggiorare le cose… questo è tutto, forse troppo.

E perdonatemi se non riesco ad analizzare, a giudicare, a spiegare, ma non sono stato uno spettatore. No, sono stato un invadente conquistatore che si è impossessato di queste pagine, vivendole, sentendosi prima Boris Vian, poi la donna che l’ha amato e poi un piccolo topolino che decide di suicidarsi tra le fauci di un insensibile gatto. Sono entrato in questo mondo onirico e surreale prendendo tutto quello che potevo prendere e subappaltando il mio piacere al mondo che mi circonda, constatando che tutto quello che conta è guardare le gambe delle ragazze carine che solcano questo mondo e poco altro.

Un inno alla durissima leggerezza, allo stato alcolico, al fluidificante sociale e badate bene che questa storia è vera. Totalmente vera. Vera perchè Vian l’ha inventata di sana pianta.

Boris Vian, La schiuma dei giorni - 1947

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