Lo statunitense Brad Anderson è stato dipinto fin dai primi passi della sua carriera come uno dei cineasti emergenti tra i più interessanti. Un'idea che si è affermata ancora di più dopo "Session 9", il primo lungometraggio di Anderson di un certo spessore, dopo alcuni lavori minori ("The darien gap", "Prossima fermata Wonderland"). "Session 9", così come il successivo "L'uomo senza sonno" ci ha mostrato un regista innanzitutto capace, con un gusto personale per il thriller. Un horror molto psicologico e poco commerciale, ma soprattutto poco "thrash", privo di scene gore. In questo modo è la storia e il suo sviluppo che creano disagio, le atmosfere asettiche e allucinate, i continui colpi di scena. Qualcuno (erroneamente o meno) lo ha paragonato ad un moderno Cronenberg per il modo di approcciarsi alla materia filmica, gettando su di lui tutta la pesantezza di un accostamento del genere.

Il motivo per cui era necessario iniziare ricordando le caratteristiche del cinema di Anderson è importante per comprendere "Vanishing on 7th street" (2010) la sua ultima fatica. Il perchè è presto detto: se nei precedenti "Session 9", "L'uomo senza sonno" e "Transsiberian", Anderson si era sempre mantenuto su storie personali e lontane dalla concentrazione mediatica hollywoodiana, questo suo ultimo film parte invece da una vicenda che si rifà (almeno in larga parte) ai titoli catastrofici che imperversano sempre di più nel mercato mondiale. Infatti la storia racconta di una Detroit improvvisamente senza luce per un motivo sconosciuto, dove rimanere nell'ombra significa morire per delle presenze nascoste. Un quadro complessivo che rimanda al road movie, al genere catastrofico, ma che è in realtà un thriller in pieno stile Anderson, sebbene la storia non risulti pienamente in suo possesso come era stato per i film passati.

A metà tra "E venne il giorno" e "Signs", la pellicola di Anderson penetra lo schermo con la solita grande densità visiva del regista, che sembra a proprio agio nelle ambientazioni "depresse" e asfissianti. Il suo film si regge bene sull'impianto prettamente formale, ma perde efficacia nell'intrattenimento: a volte "Vanishing" va avanti per inerzia, con delle sequenze banali o superficiali, quando invece si poteva indugiare di più. Si può dire che la pellicola scorra ma non così fluidamente come ci si sarebbe aspettato.

L'impianto rimane quello di un thriller di stampo moderno, legato alle paure umane: c'è la somiglianza con "The road" di Hillcoat per quanto riguarda il male, che arriva improvviso ma che è in realtà intimamente legato all'uomo, alle sue paure, alle sue manie (le ombre che "divorano" sono proprio personificazioni astratte dell'uomo stesso"). Praticamente un'umanità che si sta autofagocitando, che si sta autodistruggendo.

In questo mondo, chi può portare la fiamma della speranza? Soltanto i bambini e gli animali, ignari dell'afflizione che li circonda, loro si la luce che può far ritornare l'umanità sui suoi passi.

Carico i commenti...  con calma