-Tesoro, cosa prepari per mezzogiorno?
-Lasagne alle verdure.
-E quel frullatore?
-Frullo la verdura, così la mangiano anche i bambini.
“Hissing Prigs In Static Couture” gira in cuffia. Il rumore del frullatore non gli fa difetto. Sabato mattina.
I disturbi sono parte dell’armonia. Canzoni irregolari ma orecchiabili. Un canto isterico, a tratti subnormale, fa il resto. Cenni di falsetto improbabile, finanche voci cyber risucchiate. Fughe collassanti e bizzarri cambi di ritmo. Chitarre grattugiate, impallinate; fuzz combinati con ottava ora alta ora bassa. Un synth retò, a dir poco, eccentrico. Isteria, demenza, follia. Subdole forme sbilenche sussumono l’urgenza del punk, puntatine hard rock, la cerebralità di certa new wave, rendendo singolarmente allampanata questa materia indie. È il 1993. Anno che illustra la rigorosa onestà dei Brainiac.
Dunque, coordinate: Dayton, Ohio foriero di talenti idiosincratici; non a caso Devo e Pere Ubu sono numi tutelari. Si lasciano i Butthole Surfers alle spalle e non è l’ideale. Ma gli è andata bene. L’influenza dei Pixies, contro cui è deleterio vaccinarsi. Un po’ di gioventù sonica nelle corde della chitarrista Michelle “Bodine” O'Dean (che verrà in seguito spodestata dal ben più sciroccato John Schmersal), la sbandata genialità del leader, Timmy Taylor, al canto (quale canto?), al moog e ai carmi.
Tanto convivono caos e armonia quanto tecnicismi e dilettantismo. L’indole è cazzona (sanno di non sapere quanto sono balordi). La norma è la velocità, lo spostamento. Di più, l’essere spostati. Qui, in “Smack Bunny Baby”, comincia il processo che, con molte (e volontarie) falle, li condurrà a quel piccolo prodigio di “Bonsai Superstar” (titolo raffinato, eh?) e al loro capolavoro, “Hissing Prigs In Static Couture”, irreprensibile oggettivazione del delirio, dove riescono a portare la demenza dal parossismo ad uno stato di grazia.
Così, nel debutto, si passa dal folle punkabilly mutante di Smack Bunny Baby alle stravolte vorticosità di Cultural Zero (ritmi sincopati, cantilene insulse, fuoriuscite di materia grigia, stallatico equino, synth vintage, veemenza e demenza, insomma una super hit), dalle avvolgenti contorsioni di Brat Girl (melodia accattivante e sfuggente, corrotta dai balbettamenti di Tim, dalle corse randagie di Tyler Trent e dal basso sgusciante di Juan Monasteiro) ad Anhestitize (assurda, convulsa, eccitante, bruciante, antiestetica, uno spot ottimamente puntellato dalla chitarra di Michelle Bodine). Panta rei, tutto scorre in modo allegramente perturbante. Naturalmente i testi sono espliciti e sarcastici (una menzione al titolo I, Fuzzbot).
Se non regna ancora quel caos dove, da ogni parte, affiora imprevedibilmente un metodo, già ci sono segni di esilarante grandezza. Già, perché col terzo album (più rock sperimentale e new wave/post punk revival), e parzialmente col successivo EP prodotto da Jim O’Rourke, il gruppo non sarà più soltanto una promessa.
Il sogno però si spezza. Gli equilibri sono precari. Anche l’armonia si sgretola. Proprio come nelle loro canzoni.
Timmy Taylor muore in un incidente stradale il 23 maggio 1997. Aveva ventotto anni.
Elenco e tracce
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