E’ proprio dei massimi capolavori d’arte riuscire a contenere ma al contempo trascendere la propria epoca: essi divengono opere senza età, vessilli dai mirabili intarsi da ostentare con patriottico orgoglio all’universa umanità.
Di questa ristretta élite è rappresentante di massimo spicco l’opera cinematografica “La Casa Stregata”, di Bruno Corbucci.

Attraverso uno strenuo lavoro di ermeneutica, il film reintepreta e fa proprie le lezioni dei grandi maestri della narrativa, percorrendo a ritroso un cammino gnoseologico che, dal mimimalismo novecentesco, conduce lo spettatore fino agli albori, all’aleph della cultura occidentale.
L’ incipit dell’opera richiama immediatamente al minimalismo di Joyce, dove un Renato novello Ulisse naufraga alla deriva del quotidiano punk dell’era postmoderna. D’improvviso, s’apre innanzi a lui la voragine dell’ignoto, dell’esoterico richiamo che lo conduce in una inquietante magione; a guidarlo è il cane Gateano, antropomorfico custode di transumananti arcani, che, moderno cerbero delle plutonie rive dello Stige, lo guida verso il suo ectoplasmatico destino. E, in un viaggio che scava nei dedali più oscuri dell’umana psiche, il fantasma diviene epifania della divina “ananke”, che risucchia impietosa nel proprio vortice il caduco mortale, consolato solo dalla consapevolezza d’essere “kalòs kagathòs
In questa polimorfica babele, l’immenso Renatone si staglia al livello dell’eroe epico, che, con indomito vigore, s’oppone alla ria tela tramata da oscuri demoni, i quali intendono fargli pagare il fio di errori commessi non già da lui, ma dalla tracotante ubris dei propri avi.
Mirabile la scena in cui i tre protagonisti sorbiscono, in un complicato coacervo soggettistico fatto di sottili calembours, esoteriche pozioni di hoffmaniana memoria, attraverso il quale l’impavido protagonista va incontro alla dolce ed ebbra furia Dionisiaca. Solo l’intervento di un fato superiore riuscirà ad evitargli l’altrimenti ineluttabile sparagmòs, alla stregua dei reggenti tebani della tragedia euripidea. In un rutilante finale, il Divin Renato raggiungerà la catarsi, riuscendo alfine a carpire il dolce frutto della virginale sposa.

E’ più che mai evidente che l’opera di Corbucci rappresenta un ideale ponte tra il mondo classico e la modernità, ove il Cinema raggiunge i suoi vertici più elevati grazie ad un simbolismo che permette allo spettatore di astrarsi dalle terrene contingenze, fino a fargli raggiungere una condizione dello spirito più pura ed elevata.

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