Dall’alto. Verso il basso. In volo notturno. Sopra i cupi sobborghi del sud di Londra. Industrie. Capannoni. Caseggiati. Ancora più in basso. Dentro le nuove geografie della paura. Viaggiando a cavallo di una linea di basso. Strumento eccellente per attraversar confini.

A Londra. Da quasi trent’anni. Da quando la chitarra si è chiusa in casa. A tratteggiare arabeschi romantici o esprimere sindromi esistenziali. Da quando il punk si è consumato. A Londra. Il battito, profondo e sincopato, della strada proviene dal basso. Da quasi trent’ anni le prime linee sono sue.
Quelle prime linee generate in Giamaica. Manipolate in loco da alchimisti come Mark Stewart e Adrian Sherwood. Contaminate da outsiders come Jah Wobble. Quelle prime linee che interpretano il sentimento del tempo. Di generazioni perdute. In attesa di vie di uscita. Visibili sul “lato mancino” della strada. Quasi sempre sotto “attacco massivo”. Quelle linee si insinuano nel “sottomondo”. Si accoppiano con i battiti della batteria. E creano “nuove forme” . Mutanti. Mutate in ritmi grassi e spezzati. Da qualche anno smarrite in vicoli ciechi o fagocitate dal mainstream.

Ora, nel 2006, in una zona temporaneamente autonoma quelle linee riaffiorano. Dal buio di una notte infinita. Linee incessanti di basso iperdubbato reggono un suono fantasma. Un suono percorso da flussi elettrostatici, onde pirata, tastiere pressate, samples di jazz incenerito, sussuri femminili e voci raminghe.

Pare di vederlo questo suono spettrale. Ospite irrequieto che scuote i tombini delle nostre città. Dei nostri luoghi oscuri. Dei nostri bassi-fondi.
Pare di vederlo l’enigmatico Burial, intercettare, col mangiacassette, inquietudini urbane. E poi sovrapporle e saturarle col computer fino a renderle mood contemporaneo. Prossimo all’esplosione.
E’ questa la virtù schizoide e allucinata, maledettamente reale, che invita all’ascolto di Burial.
Se non altro per chiedersi se sarà questo il disco che, alla fine, guarderà tutti gli altri. Dall’alto.
Verso il basso.

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