Lo ammetto; quasi mi dispiace scrivere una recensione seria sui Cannibal Corpse, una delle band più ridicole dell’intero scenario Brutal Death metal, seconda solo a campioni di idiozia quali Deicide e Morbid Angel.

Tuttavia questo gruppo, almeno nei primi cinque album, ha fatto storia: questo sottogenere di metal l’hanno (ahimè) praticamente inventato loro. E non sapete quanto mi costi fare un’affermazione del genere, perché nomino Demiurgo del mio genere musicale preferito un branco di squilibrati. Ma “il fato prescrisse illacrimata”: quindi proseguiamo.

Il lavoro che vado a recensire e niente meno che il loro debutto, datato 1990, pubblicato dalla emergente etichetta Metal Blade e curato dal celebre produttore Scott Burns agli altrettanto celebri Morrisound Studios. L’anno d’uscita di questo cd è molto importante al fine di capirne bene l’innovazione: infatti l’esplosione del Death e del Brutal Death avvenne proprio tra il 1990 e il 1993 e quindi “Eaten Back To Life” si colloca tra i primi in assoluto. Potendo attingere il proprio materiale sostanzialmente solo dai lavori di pochi gruppi estremi, i Cannibal Corpse diedero vita ad un nuovo genere, il Brutal Death (la cui consacrazione avvenne un anno dopo grazie ai lavori di Suffocation e Gorguts). In realtà catalogare in questo modo il disco in questione è un po’ pretestuoso, ma d’altro canto presenta così tanti elementi di rottura con il raw Death (il Death più grezzo, quello degli esordi) che è impossibile fare altrimenti.

Primo tratto distintivo del disco (all’inizio circolava solo il vinile) fu, a suo tempo, l’artwork, che colse assolutamente impreparato il pubblico: nonostante oggi sia più che normale, anzi, quasi delicato all’interno del genere, suscitò molte polemiche che costarono al gruppo la prima della lunga serie di censure di cui i nostri ancora si gloriano. Per la copertina si rivolsero ad un disegnatore di fumetti Horror-Trash (non Thrash!!!), come faranno nel corso di tutta la loro carriera (ancora attivissima, purtroppo) in un climax di esagerazione e cattivo gusto. Le canzoni sono undici per un totale di circa quaranta minuti e vedono la partecipazione straordinaria alla voce di Glenn Benton, il cantante dei Deicide, amici e concittadini dei Cannibal Corpse (provenienti da Tampa, in Florida, si stabilirono a Buffalo, nel Texas), col quale la collaborazione continuerà anche nel successivo Masterpiece “Butchered At Birth”.

Il gruppo mette in mostra fin dall’esordio quelle che saranno le capacità tecniche in tutti i loro lavori seguenti: a livello di perizia esecutiva non ci saranno mai impennate, né evoluzioni, né miglioramenti: con ciò non voglio dire che suonino male, anzi, i loro standard sono medio alti. Tuttavia, rispetto a molti altri gruppi la cui tecnica è sempre “In Fieri”, i nostri denotano una grande immobilità (la stessa che, a partire dal quinto lavoro “Vile”, si impadronirà anche del loro sound). Batterista e chitarristi svolgono un lavoro corretto e di certo non facile, ma non eccellono per originalità e per virtuosismo: il riffing è lineare e ancora abbastanza ancorato al Death classico (che a sua volta ha le proprie radici nel Thrash) e sicuramente privilegia la potenza invece che la tecnica. Ripeto che, se paragonato a “Left Hand Path” degli Entombed o a “Slowly We Rot” degli Obituary (due lavori all’incirca contemporanei e dello stesso genere), questo Lp vi sembrerà un tecnicismo continuo, ma se accostato ad “Effigy Of The Forgotten” dei Suffocation, capirete cosa intendo dire.

Dotato di grandi capacità (anche se eguagliato da tanti strumentisti underground) è invece il bassista, Alex Webster, il cui talento è forse eccessivamente riconosciuto e celebrato: insomma è un ottimo bassista, ma Steve DiGiorgio (Death, Sadus, Testament) è un’altra cosa. Alla voce c’era ancora un acerbo Chris Barnes che grida come un cavernicolo con una voce ben lontana dal growling cimiteriale che acquisirà in seguito, ma comunque adatta al contesto. La composizione delle singole canzoni è ben curata anche se ripetitiva, altra caratteristica ricorrente di questo gruppo. I Cannibal Corpse, infatti, non pubblicano mai lavori fatti male o frettolosamente e tutte le loro composizioni sono studiate e pensate, anche se non delle perle di cura: tuttavia sono di una tale monotonia che, all’interno di un disco, se ne salvano per originalità solo meno della metà (tranne che in “Butchered At Birth”, il loro lavoro che preferisco proprio perché si salvano più canzoni). Tutte le altre sono pressoché identiche a quelle che chiamo “canzoni guida”, le song destinate a diventare degli inni.

Per quanto riguarda “Eaten Back To Life”, io salverei solo le prime due, “Shredded Humans” ed “Edible Autopsy”, ma mi rendo conto che dico questo perchè ho ascoltato per la prima volta l’album esattamente quattordici anni dopo la sua uscita: probabilmente l’ascolto aveva molto più senso al tempo, quando se ne poteva apprezzare la inaudita (nel senso etimologico della parola) potenza. Lo stile del gruppo, come già detto ad oggi invariato, si basa infatti su tempi molto veloci con rari e pesantissimi rallentamenti e un riffing di chitarra al vetriolo, supportato da voce e basso analoghi. Che dire poi dei testi ? Il primo mattone della disgustosa “opera letteraria” dei nostri: le liriche trattano solo ed esclusivamente temi Splatter Gore, indugiando su particolari macabri e volutamente pseudo scientifici. Nonostante non siano ancora ai livelli delle nefandezze dei lavori successivi, si difendono bene con una massiccia dose di omicidi e traumi anatomici, desunti probabilmente da filmacci horror (nel libretto ringraziano anche Dario Argento che chiamano “Master Of All Gore”). Tuttavia questi temi sono trattati senza l’umorismo di gruppi come Carcass e senza ridersi minimamente addosso, ma con una palese e studiata morbosità (una delle caratteristiche che più mi da fastidio di questo complesso).

Insomma, “Eaten Back To Life” è un disco che raggiungerebbe la sufficienza senza problemi ma che non meriterebbe molto di più. Data la sua rilevanza storica, però, mi sento in dovere di dargli il massimo: per quanto le canzoni siano poco più che ascoltabili, ci sono da considerare i meccanismi che hanno messo in moto, la tendenza a cui han dato il via. Chi ama il Death e il Brutal non può non avere questo storico disco, non un Masterpiece, ma una pietra miliare.

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