Era il settembre del 1972, l’allora ventinovenne cantautrice newyorchese Simon si trovava a Londra per registrare il suo terzo album di carriera ai Trident Studios, secondo la volontà del suo produttore. Ogni mattina perciò un mezzo veniva a prenderla all’albergo per portarla a lavorare in quegli studi. Ma quel giorno sul taxi c’era anche l’apprezzato fotografo rock Ed Caraeff, incaricato dalla produzione di allestire un set fotografico per la cantante, per poi piazzare qualche immagine sulla copertina del nuovo album.

Caraeff quindi, ancor seduto dentro il taxi, ha l’ispirazione di scattarle un’istantanea mentre che lei, appena uscita dal Portobello Hotel nel quartiere di Notting Hill, si sta avvicinando a loro per salire in auto.

Ed eccola lì, bella da impazzire, colta in una posa ovviamente del tutto naturale e perciò ancor più strepitosamente attraente: il corpo snello ma formoso, le dita lunghe da pianista, i capezzoli che premono sensuali sul maglioncino, lo sguardo tranquillo verso la macchina ma un filo perplesso, o sorpreso, dal fatto di esser ripresa. La generosa bocca dischiusa (forse sta parlando, sta salutando) va a comporre in ogni caso, insieme e più di tutto il resto, un debordante richiamo alla sensualità.

In conclusione sulla cover del disco va giustamente a finirci quest’istantanea, colla migliore foto del successivo set relegata invece sul retro. A cogliere il pelo nell’uovo, anzi a scartare grasso grassissimo, non è che la Simon sia sempre così astronomicamente bella come in questa inarrivabile foto: il suo prognatismo, in tante altre pose o istantanee, può essere oggetto di pignolo appunto, ma insomma a suo tempo io vi andai matto per tale fulgido esemplare di “meticcia” (padre mezzo tedesco e mezzo ebreo, madre mezza cubana…) e fare le pulci all’avvenenza di questa artista è proprio fuori luogo. Accidenti, doveva metter su famiglia proprio con quel tossico inaffidabile di James Taylor, colla fila interminabile di uomini che le scodinzolava dietro?

A proposito di codazzo di uomini dietro a lei, quest’opera contiene la celebre “You’re So Vain”, una di quelle canzoni pop piuccheperfette, il testo della quale ironizza beatamente su di un paio di sue storielle con vanesissimi giovanotti, specificatamente Warren Beatty e Mick Jagger. Il brano spicca nettamente fra gli altri, introdotto da quella preziosa pennellata di distintività in grazia al famoso riff di basso di Klaus Woorman, e più in là intramezzato da un melodiosissimo, delizioso assoletto di chitarra slide anch’esso ben peculiare.

Tutto il disco è parimenti piacevolissimo, basta non essere prevenuti verso il soft rock amaregano. Carly ha una voce poco potente, delicata ma espressiva e molto ben controllata, ad esempio quando passa al falsetto. Compone e suona i suoi pezzi prevalentemente al pianoforte, sennò sulla chitarra acustica, come si conviene ad una cantautrice autentica. Ad aiutarla qui e là vi è gentaglia come Taylor (che stava per sposare, di lì a poco), George e Payne dei Little Feat, Paul e Linda McCartney ai cori e tantissimi altri.

Non colleziono tanto soft rock in discoteca; con le sue primedonne americane poi (la King, la Nicks, la Slick…) ci vado a piccole dosi, tranne la Mitchell che è fuori categoria, una marziana, una dea, meritevole di serate intere di devoto ascolto e ripasso. Ma questo album della Simon me l’accattai al volo ed ogni tanto lo riafferro. Per la copertina, se non altro.

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