Immagina di essere un bambino, e che questa storia sia la tua. Procedi a ritroso. Apri gli occhi sulla realtà, occhi in cui entra tutto e da cui non esce niente. Buchi neri, fiori di purezza.

Giochi con i fratelli nel tuo paese (sai che è Africa occidentale, niente di più) immerso in un paesaggio magnifico, quasi infinito. La macchina da presa si muove in stile documentaristico, a batticuore. Ti riprende mentre corri in un mondo cosparso di stelle. Cose a cui ci si abitua, che dopo un po’ non hanno più niente di speciale, ma che Fukunaga riesce a riportarci attraverso gli occhi teneri e acquosi di Agu.

Finchè lungo il suo cammino si apre una porta, e in questa storia inizia ad entrare la violenza, l’assurdità, la solitudine e il dolore, tanto da rendere surreale la natura e il paesaggio incantato che fanno da cornice. Per questo motivo guardare “Beasts of No Nation” (2015) è un pugno sullo stomaco, anzi una raffica di pugni sullo stomaco. Non ascoltare quando urlo. Chiudi gli occhi mentre stuprano e abbandonano. Mentre ti drogano e ti costringono a uccidere. Abbi pietà almeno per te stesso, proteggi la tua immaginazione, prova a tornare a un passato mai avvenuto davvero (“Beasts of the Southern Wild”). Questo sussurro qui si eleva a grido universale, in tutte le nazioni di un mondo voluto da Dio del quale i bambini fanno necessariamente parte, dal quale non sono mai stati separati. Nemmeno i circa 250000 child soldiers (secondo le stime di War Child) che combattono per gruppi ribelli in paesi come India, Colombia, Burma, Tailandia.

In questa storia (debitrice della cinematografia americana sul Vietnam –“Eyes Wide Shut”, “Apocalypse Now”- e sull’Afghanistan –“Hyena Road”- e dell’ultima decade malickiana, da “The Tree of Life” in poi) diventa particolarmente difficile tornare indietro, a un’origine, a una primitiva e dolcissima forma d’amore, perché la causa dei fatti sembra risiedere a profondità infinite, negli abissi della mente e del destino. Dove anche i mostri trovano le loro ragioni, dietro spessi coni d’ombra. Giganti come il carismatico Commandant (Idris Elba), qui messo al fianco di ragazzini come il piccolo e plagiabile Agu o il suo amico muto, l’ancora più piccolo e fragile Strika. Punti di vista privilegiati, che il regista Cary Fukunaga torna a metterci a disposizione dopo la bellissima storia di redenzione “Syn Nombre” e la prima stagione di “True Detective”, riuscendo (di nuovo) a diluire la nostra indifferenza e la nostra insofferenza nei confronti della disperazione, riservandoci un posto in platea, seduti in prima fila, vicini alle manifestazioni più evidenti di disumanità.

Tornando a vivere visceralmente la paura, il dolore inspiegabile di un bambino, rivediamo il mostro che al suo passaggio distrugge letteralmente tutto, in un’ipnotica e tragica odissea dell’infanzia che diventa apocalisse (“True Detective”, ma anche “Hap & Leonard”, “La Strada” o “Oltre il Confine” di Cormac McCarthy, il nuovo “You Were Never Really Here”. Là era l’isolamento, la perversione, fantasie malate e abbagli collettivi, epiche distorte e piogge acide). Tutto resta nell’ombra, ma ci si può anche servire di queste ombre per erodere ciò che le proietta. Agu scomparirebbe dentro il mortificante, inutile e assurdo teatro degli orrori che l’uomo ha messo in piedi per lui, se i suoi occhi non dominassero il paesaggio attorno a loro. Nella sua infinita tristezza, il bambino impaurito che guarda il mondo rimane comunque immerso in quella dimensione ancora liquida, quasi fantastica che dà al suo sguardo speranza e pienezza.

È come se tempi nuovi stessero portando con sé i germi di nuove visioni, predisposte a entrarci dentro con più o meno violenza, a un livello subliminale, quasi inconscio, e modificarci la coscienza (non è ancora chiaro se per trasformarci in pecore sognanti -penso a Philip Dick o agli androidi di “Westworld”- o intelligenze superiori, sempre più evolute). Perché ormai sembra non esistere più nessuna verità al di fuori del racconto. Forse, solo così ogni storia potrà (finalmente?) diventare la nostra.

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