CRASH, una vetrata d'un molto-esimo piano salta e oltre si apre il mondo che attende lo spettatore, ed è tutto così chiaro, quotidiano, iperreale. Insomma, se Christopher Nolan diventa Michael Mann e inscena la rapina perfetta (per risultato nella finzione e resa sullo schermo) nell'afosa cornice urbana di Gotham City (o di Chicago), restituendoci sudore e nervi che saltano, e tutto finisce sulle cicatrici che allargano il sorriso del Joker, allora stavolta c'è da avere paura sul serio, il male può essere pure in sala tra noi, e forse Batman farà come il treno dei Lumière e di Neri Parenti, verrà "al di qua", e ci salverà tutti.

Quella del Male ineluttabile è la sensazione più cercata, e più "realizzata", di questo "The Dark Knight", sesto Batman cinematografico (o forse settimo, dipende anche dall'affetto che ognuno prova verso la calzamaglia di Adam West), secondo del progetto Nolan, che si allaccia alla rivoluzione post-Miller dei comics legando a doppio filo lo script a "Il lungo Halloween" di Jeph Loeb e Tim Sale, saga pubblicata dalla DC tra il 1996 e il 1997, narrativamente sospinta dalla parabola decadente di Harvey Dent, il Procuratore Distrettuale di Gotham City meglio noto come Due Facce. Sullo schermo Harvey Dent ha il volto, presto sfigurato, di Aaron Eckhart; è lui l’Angelo di Gotham, l’uomo che senza maschera combatte la malavita cittadina che fa capo al boss Sal Maroni, successore del Carmine Falcone caduto in disgrazia nel precedente "Batman Begins" (2005). Ed è lui, corroso a metà con licenza poetica rispetto al fumetto, a unire nella sola apparenza le ambizioni filosofiche del film (dualità, identità, nichilismo, caos e caso - il lancio della monetina con cui decide il destino delle persone) e i suoi difetti (il make up e quindi, più in generale, l’indecisione visiva tra “fumettata” per tutti e discorso, più reale del reale, per pochi). Su tutto, riuscitissima, la non-trattazione sul Male; eterno, stagnante, infetto, senza Storia nè bisogno di presentazioni. Detta banalmente e in altri termini, l’antagonista che ruba la scena al protagonista.

Il compianto Heat Ledger (1979-2008) fa sua la maschera del Joker e ne raccoglie sulle cicatrici e dentro le orbite abissali la disperazione del Mondo, sprofondato più o meno dalle parti dove nasce la risasta di questo mostro tanto distante quanto la porta accanto (narrativamente, la caratterizzazione moderna del Joker, così come il suo “completamento” con Batman, la si deve soprattutto allo splendido “The Killing Joke”, fumetto di Alan Moore e Brian Bolland datato 1988, che però ne narra anche le origini, trascurate in questo film). Non è la morte di Ledger a fare grande questo Joker, bensì il completamento perfetto, su tutti i livelli, dal scenografico al “significante”, che ha con le scene in cui si muove, come a sua volta aveva già fatto Nicholson nell’universo burtoniano del già ventennale “Batman” (1989). A guardare “bruciare il mondo” un Cavaliere Oscuro indeciso sul quanto esserlo, ma Nolan non pigia sull’acceleratore e Christian Bale, fisicamente impeccabile nella doppia identità Batman-Bruce Wayne, sta agli ordini.

Solita passerella di attori, a saltellare tra i montaggi alternati che non difettano di suspense: di Aaron Eckart ho già accennato. Non è Tommy Lee Jones, che fu Due Facce in Batman Forever (Joel Schumacher, 1995), ma in quell’immenso e stomachevole minestrone neanche Tommy Lee Jones fu molto se stesso, quindi, tra le quattro facce, direi che vincono le due di Eckhart. Rimangono, come se fosse poco, e invece è troppo, Michael Caine (Alfred, il maggiordomo di Bruce Wayne), Gary Oldman (il commissario Gordon), Maggie Gyllenhaal (Rachel, amata dai paladini diversi, Batman-Bruce Wayne e Dent) e Morgan Freeman (capo esecutivo della Wayne Enterprise).

Già si parla del terzo capitolo del Cavaliere Oscuro secondo Christopher Nolan, ma intanto, per decidere quanto questo mi sia davvero piaciuto, ho bisogno della memoria: mi manca la scoperta, irriverente e “intellettuale” messinscena del primo Burton, gli splendidi personaggi innevati del “Returns” (1992), ma non mi manca per niente il fasullo metalinguaggio baraccone di Schumacher (“Batman Forever” e “Batman&Robin” due anni dopo). Questo è già abbastanza, un plauso a Nolan. Però… la calzamaglia di Adam West?

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