[Contiene anticipazioni]

Ci sono film che sembrano porsi un obbiettivo limitato, non troppo ambizioso a livello tematico, ma che poi nel loro sviluppo si dimostrano validi a tal punto da risultare migliori di altre pellicole con soggetti più originali.

Non essere cattivo funziona così: parte scialbo, raccontando la vitaccia di giovani ragazzi di Ostia a metà degli anni '90: droga, spaccio, feste a cui non sono invitati, litigi e ripicche. Un quadro realista ben eseguito, che se vogliamo ha un suo tratto di originalità nel focalizzarsi solo sui pesci piccoli, quelli che pur spacciando e facendo lavoretti criminali non fanno la grana vera e sono sempre a corto di soldi.

Nello sviluppo del film Caligari e gli attori fanno la differenza, arricchendo lo scenario desertico con tanti spunti. Cesare e Vittorio sono due personaggi scritti magnificamente e interpretati anche meglio: Luca Marinelli (straordinario!) e Alessandro Borghi sono totalmente calati nelle parti. Espressioni, movimenti, linguaggio e uso del dialetto: non c'è un dettaglio fuori posto.

La sceneggiatura poi presenta molti pregi. Riesce a sondare con profondità una storia che può apparire semplice, mostrandone i risvolti meno scontati. Così Cesare che sembra quello cattivo viene pian piano alla luce per il suo vero carattere: irascibile, incapace di controllarsi, ma fondamentalmente buono, desideroso di vedere la nipote felice e mettere su casa con la fidanzata Viviana. Vittorio si tira fuori dal giro appena si rende conto che sta esagerando con le droghe. Ma la sua vita è tutt'altro che facile, tra ricadute, mancanza di soldi, difficoltà con la compagna Linda, tentativi maldestri di portare anche l’amico Cesare in cantiere.

L'emblema definitivo di questa visione non superficiale delle due strade intraprese dagli amici arriva nel finale. In un film banale il messaggio sarebbe: «Guarda, Cesare facendo il criminale è andato a morire, invece Vittorio adesso ha una famiglia». Ma Caligari va ben oltre: l'ultimo momento di vita di Cesare è infatti felice, perché Viviana gli mostra i 5 milioni che hanno guadagnato. Inoltre, non c'è spazio per letture tragiche, prevale l'ottimismo nei confronti del futuro, laddove Viviana porta in grembo il figlio di Cesare e una volta nato gli dà il nome del padre. È una sorta di processo di purificazione: quanto di buono c'era in Cesare è rimasto vivo nel grembo della fidanzata e come la Fenice può rinascere grazie a lei.

E Vittorio? Ha un lavoro in cantiere, ma guadagna poco e Linda vorrebbe sempre di più. Il film si chiude con la scoperta che il suo figliastro, viste le difficoltà economiche della famiglia, si è proposto per trasportare la droga. I problemi di Vittorio sono quindi tutt'altro che finiti.

In queste scelte diegetiche si potrebbe annidare un’interpretazione ciclica dell'esistenza di queste persone di piccolo affare. La salvezza di uno non implica la salvezza di chi verrà dopo di lui, così come una fine tragica non preclude la felicità ai parenti. Non c'è uno schema logico, l'unica cosa certa è la costante indigenza di queste persone.

E allora è forse meglio vivere di sogni in un rudere come fa Cesare con Viviana, piuttosto che confrontarsi con la realtà in modo lucido. Vittorio sarà sempre un passo indietro rispetto ai normali operai, quelli in regola, pagherà per sempre lo scotto dei suoi errori. Da questo punto di vista allora le strade dei due amici non paiono così tanto divaricate.

La regia è puramente funzionale, non emerge per elementi estetici particolari. La fotografia e il montaggio sono invece decisivi per i colori scuri, le ombre e la scelta saggia di non calcare troppo la mano sulla dimensione tragica degli eventi. In questo scenario di miseria esiste anche la felicità, anzi forse i momenti di allegria prevalgono anche quantitativamente su quelli di disperazione. È la felicità di chi non ha niente, come il piccolo Useppe nella sua tenda d’alberi del romanzo La Storia di Elsa Morante. Ecco, Cesare nella sua baracca è proprio come Useppe.

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