“Guarda quant'è bello”. “È bellissimo”. Che si tratti di magliette, scarpe, orologi, oppure pistole, mitragliette, fucili, la reazione dei bambini napoletani è sempre questa. Il loro pensiero lineare non va oltre, e privo di carreggiate morali da seguire, abbraccia i videogiochi e lo spaccio, le discoteche e l'estorsione con la stessa ingenua apertura.

È un poema sulla fine del mondo, La paranza dei bambini. Il racconto è così forte e devastante che chiede di essere smorzato dalla regia, perché fa già troppo male così. Con una faccia come quella del giovane protagonista, impersonato da Francesco Di Napoli, non serve aggiungere molto: in quei tratti c'è tutta l'immaturità dei quindici anni e tutta la freddezza di questi guaglioni che non si fanno problemi a sparare, sniffare cocaina, minacciare di morte, chiedere armi a boss agli arresti.

Non è un caso che il bravo Giovannesi insista con i primi piani su Nicola (il cui nome quasi non compare, lui è un paradigma) perché il mondo intorno a lui e ai suoi amici ormai lo conosciamo, e qui si racconta tutto sommato di piccole scaramucce di quartiere. Non è la camorra il soggetto, ma i tanti Nicola che “sbocciano” in quei quartieri. Ed è impossibile spiegarli solo con un ragionamento sociale e culturale: c'è una lucida follia negli occhi di questo ragazzo, una fascinazione per il male che non può essere solo frutto di condizionamenti esterni. È in quegli occhi gelidi che si condensa quella fame bestiale, quel volere tutto e subito. Un miracolo osceno e infernale che si trasforma in prassi quotidiana.

Certo, il ritratto sociale è ineludibile e ben presente. Senza ridondanze però, senza sottolineature enfatiche da drammone. Siamo in una fase successiva del racconto, in cui si cesellano i dettagli. C'è ad esempio una madre che vede il figlio quindicenne contare migliaia di euro in contanti, e non osa chiedergli da dove arrivino, perché lo sa, non osa biasimarlo, perché è lui l'uomo di casa, ma lo può solo abbracciare con il cuore raggelato, sapendo che presto lo perderà.

E ci sono i bambini, non di quindici ma di dieci anni, che giubilano di fronte a pistole e fucili, li imbracciano tutti eccitati. Una cultura nefasta che è penetrata in ogni pertugio e ha insozzato le menti e i cuori anche dei più piccini. O le ragazzine, che non si stupiscono di fronte ad armi e cocaina, ma che non osano e non vogliono parlarne mai, perché quello è comunque il loro primo amore, e nulla potrà rovinarlo.

Al pari, le menti di Nicola e compagni viaggiano su binari assurdamente paralleli: criminali avveduti, feroci, e al contempo ragazzini frivoli, uguali a tutti gli altri, con nella testa Gallipoli, le scarpe Nike, il motorino nuovo. Ragazzini che baciano mamma ogni mattina e litigano con il fratello per le merendine. Ma ben presto inizieranno a dormire con la pistola sul cuscino.

L'opera di Saviano e Giovannesi ha, tra i tanti meriti, quello di coniugare perfettamente mimesi del reale e piglio “romanzesco”, ma senza forzature, senza snaturare o abbellire ciò che bello non è. La forza narrativa è tutta nel realismo, nell'assurdità vertiginosa di queste vite, nella rapacità inspiegabile di questi bambini. Insomma, la realtà supera di gran lunga la fantasia. E gli autori la sanno far emergere con una naturalezza degna del grande cinema italiano.

Non c'è giudizio, non c'è enfasi, non c'è un pistolotto moraleggiante. Tutto è così clamoroso che basta mostrarlo per dare il senso della catastrofe.

8/10

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