Chi mi legge sa quanto io sia un inguaribile e nostalgicissimo ragazzo degli eighties.
E, invecchiando, obiettivamente, peggioro.
"One shot 80", versione ciddì con tutti gli mp3 dentro, alberga permanente ed effettivo nel mio stereo da poco, in veranda.
Ormai è pure superata la commozione ed è tornato il divertimento di allora. Nella mia mente nostalgica e malata, non ricordo gli ottanta con la lacrimuccia, come facevo qualche annetto fa, ma ci son dentro fino al collo. Ieri sera, per dire, si stava facendo una sontuosa grigliata e si sculettava al ritmo di "Easy Lady" della Spagna, ancora quella col testone, non quella plastificata e pascolante per le feste del PDL (allora, anzi oggi -perché siamo negli ottanta...- il PDL non c'era e si viveva felici e lamentanti del nostro splendido pentapartito governante e del PC opponente e felicemente connivente).
Dunque, ogni volta che un mio eroe fa un disco nuovo, non è nostalgia: è semplicemente la nuova tappa della medesima avventura.
Ed è così per i grandi degli ottanta (U2, Knopfler, Prince, a suo modo anche il Boss e Bowie, anche se su questi l' "obiezione temporale" è quantomeno ovvia), quanto per i minori, le meteore o quelli che meteore o simpatici ricordi del passato son diventati per l'opinione dominante (si sa che anche i Tears4Fears han fatto un disco bellissimo, di recente, ma in quanti ce lo siam mangiato?).
E così (ma solo in parte) si può ritenere che sia per Colin Hay, da noi noto, per i nostalgici e solo per loro, come il cantante dei Men At Work. Come la voce di "Who Can It Be Now". O come la geniale comparsa di Scrubs, con quella "Overkill" acustica, conclusasi in completa nudità, chitarravestito, nella camera mortuaria dell'ospedale.
Uomo a cui non manca la voce, la chitarra, il "senso della canzone" e, in una parola, l'Arte.
Ovviamente uomo dignitosamente dimenticato in quest'italietta da x-factor, dove Morgan passa per artista mentre gli artisti veri passano ben distante.
E tra gli artisti veri, a pieno titolo, metto Colin Hay, l'Australiano. Uno che ha dedicato la vita alla musica, ad un onestissimo cantautorato-pop, confezionando dischi sconosciutissimi e (alcuni) bellissimi. Tornando ogni tanto sulle antiche partiture dei Men At Work, sia in chiave acustica, sia con dei realoded elettrici, o con una vera e propria reunion di metà anni novanta (un bel live). Magari ne parleremo.
Ogni tanto bazzico il suo sito ufficiale: unico modo, da noi, di sapere quel che fa. E ogni tanto, più o meno a cadenze annuali, è un piacere scoprire una nuova uscita.
Questo disco è molto casalingo, soft, prevalentemente acustico. Sostanzialmente ben scritto anche se, ahimè, privo di capolavori veri. C'è una media piuttosto alta, ma nulla purtroppo s'invola. Non c'è l'urlo graffiante d'un tempo, ma una voce soft, roca, splendida. Un disco che carezza e non graffia mai, che accompagna e non infastidisce.
È un bel sottofondo di un gigante eighties e d'un buon cantautore successivo. Roba piacevole.
Oggi credo sia già moltissimo.
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