Si materializza, prepotente, senza che di lui si sappia neppure il nome: la mascella barbuta, colorito e abito di una grigiastra tonalità trasandatezza, terra sporca, e baffi spettinati e gialli su denti marci e zigomi di legno ammuffito, mal intagliato. Il profilo di Abramo Lincoln e lo sguardo indifferente di chi ha visto poco del mondo oltre le montagne custodi del suo nido, la sua valle nel selvaggio Tennessee, lo sguardo rosso e celeste di chi ha trovato nel baseball -è un bianco nordamericano nato nella prima metà del secolo, cosa ci si può aspettare?- nel Whiskey fatto in casa e nella caccia la sua palliativa cura premorte. Vanta un'educazione cristiana rigorosa, straparla del nostro salvatore come un predicatore nero di New Orleans. E' uno stereotipo americano in carne, uno che ha masticato tabacco, il baluardo inconsapevole di una razza in via d'estinzione, uno stramaledetto apatico Clint Eastwood di provincia. Un razzista col cappello, un miserabile figlio di Dio che non conosce Socrate e certo non coglie la ricchezza inestimabile del non sapere, non può capire la saggezza celata dal suo semianalfabetismo, il fascino lirico dell'essere bucolico.

Lo chiameranno narratore, gli esperti, voce fuori campo: io lo immagino così, con uno spiccato accento che neanche conosco, ma spiccato, mentre voi perdonerete la mia carenza di inventiva, le mie nozioni inesistenti su usi e costumi del Tennessee, e nel vostro immaginario di esperti americanofili dipingerete un ritratto certamente più consono. Non è questo il punto, o forse lo è. Perchè il narratore, il Cormac McCarthy che ha imparato l'arte da Flaubert e ha posseduto il bifolco lassù fino all'annullamento di sè, ci ammonisce fin dalle prime pagine: Lester Ballard lui lo conosce, è un figlio di Dio proprio come noi, come voi. Non si scappa. Un figlio prediletto, il vostro fratello, sangue del vostro sangue e sì, creato a Sua immagine e somiglianza, ipse dixit. Se la cosa vi suona bene, fareste meglio a fermarvi.

Questo mago del discorso indiretto libero, della narrazione mimetica, delle parole che puzzano di merda e profumano di muschio verde, McCarthy, con la coperta sulle gambe, il cappello e l'accento del Tennessee si fa beffe della visione del mondo del buon cristiano in un romanzo breve, o racconto lungo se vi pare, semplicemente scandendo a ritmo di brevi diapositive le vicende di un paese rurale, tranquillo, di un ometto barbuto sempre in compagnia del suo fucile, Lester Ballard, una povera formichina bianca che si affanna e vince la natura eterna e magnifica dell'inverno, una natura perfetta, magistralmente dipinta con tocchi di sublime, spontanea poesia. La caccia, qualche furtarello e una catapecchia occupata abusivamente, i suoi unici mezzi. Un piccolo eroe romantico di Chateaubriand insomma, il nostro fratello, quasi un esempio per le generazioni future. Quasi.

Ballard è solo, nella wilderness che annovera il conradiano Kurtz tra le sue vittime più celebri, è solo e ha il gene della follia, niente da perdere e niente da guadagnare; un lercio fascio di nervi, misantropia e polvere da sparo, puro istinto, il cinismo incarnato. E quando si stancherà di masturbarsi spiando fuori dal finestrino le coppiette parcheggiate nella solita piazzola di sosta, sul fianco della Frog Mountain, Ballard ucciderà e sarà naturale, fisiologico, senza rimorso: ucciderà per scopare i cadaveri ancora caldi di altre figlie di Dio, li truccherà e li vestirà con premura, li conserverà in una caverna sotterranea fin quando saranno coperti di funghi, insieme ai pupazzi vinti prepotentemente al luna park anni prima, i suoi teneri fedeli compagni. Tigri, orsacchiotti. L'uomo, il figliol prodigo, che non conosce emozione e prova il conforto del carcere, fagioli pane e acqua, del manicomio, nella sua cella di fianco allo psicopatico che mangiò i cervelli delle sue vittime con un cucchiaino: figlio di Dio anche lui, come il custode della discarica che picchia e stupra le sue figlie, e il bimbo deforme che stacca a morsi le zampe al passerotto per impedirgli di fuggire via, sotto gli occhi divertiti di Ballard. Proprio come noi, sì.

Non leggete Figlio di Dio se avete paura del vostro fratello, se condividete con il buon cristiano cantastorie che in fondo quel lurido necrofilo feticista assassino di un Ballard è pur sempre un figlio vittima di questo mondo -cantava qualcuno- perchè sappiate che potreste scoprirvi disobbedienti ai dogmi nel non riuscire a perdonare, a trovare morale e redenzione in un finale secco e freddo come pochi; o peggio per voi dubiterete, avrete lampi di lucido disgusto per l'essere umano perchè in fondo sapete che oltre la finzione letteraria c'è una realtà capace di partorire mostri ancor più terrificanti, e allora scoprirete che McCarthy ve l'ha fatta, lo disprezzerete perchè non ci saranno parole di conforto per voi. Ma se si addice di più al vostro spirito il cinico nichilismo che trova il suo corrispettivo estetico in un periodare arido, ispirato e con lampi di magniloquenza -le descrizioni degli ambienti a partire dai dettagli, vera specialità di McCarthy, garantiscono brividi- ma rigorosamente freddo, talvolta ironico, puro e crudo ai limiti dell'esagerazione, e nella cieca violenza verbale vi trovate a vostro agio, allora sarete sedotti, voi che non avete bisogno di significati ma che amate perdervi nei significanti di una penna cristallina, glaciale, insanguinata; come quell'inverno a Frog Mountain, Tennessee.

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