Una felice sorpresa.
"Cella 211" esce nelle sale italiane lo scorso 2010, un anno non propriamente zeppo di film validi: questo è però, un titolo finalmente di alto livello che ci giunge dalla penisola Iberica. Proprio da un racconto spagnolo è tratto il soggetto da cui poi è nata l'idea generale e la sceneggiatura che ha dato vita al film: stiamo parlando dell'omonimo romanzo firmato da Francisco Pérez Gandul, da poco edito anche in Italia a cura della casa editrice Marsilio. Da questo thriller carcerario prende spunto il regista Daniel Monzón che costruisce attraverso una regia precisa, secca e senza inutili virtuosismi una pellicola potente e narrativamente efficace, che colpisce per la verità che si porta dietro.
La storia è quella del giovane Juan Oliver, appena assunto in un edificio carcerario spagnolo. Deciso a voler fare buona impressione sceglie di visitare la prigione e in quello stesso giorno, all'interno della struttura scoppia una rivolta capeggiata dall'energumeno Malamadre (un formidabile Luis Tosar). Nel caos totale che si genera di lì a poco Juan resterà suo malgrado invischiato all'interno del carcere con il doppio ruolo di dover fornire indicazioni all'esterno e allo stesso tempo appoggiare la causa dei detenuti.
Oltre ai meriti degli attori e alla buona rappresentazione della location utilizzata il vero pregio del film è la visione e l'interpretazione che ne fa il suo regista. Monzón dimostra di non schierarsi: non si pone dalla parte dei funzionari e del Governo, accusato dai detenuti di farli "vivere" in condizioni pessime, senza alcun diritto e relegati ai margini della società. Allo stesso modo non si schiera dalla parte dei reclusi che dal canto loro invocano più libertà, giustizia e diritto agli elementi fondamentali. Il suo "taglio" narrativo è quindi di assoluta imparzialità, "limitandosi" ad osservare con l'occhio spietato di un documentarista ciò che avviene all'interno del carcere di massima sicurezza, dove la lotta non è soltanto tra funzionari e detenuti ma anche (e soprattutto) guerra intestina alle due "fazioni". Nel film di Monzón non c'è il "bene" e il "male". La scelta del "con chi stare" spetta al pubblico che sebbene si appassioni alla vicenda non può che riflettere dietro ad una storia che ha il sapore amaro della contemporaneità, della realtà di tutti i giorni.
In uno scenario di questo tipo, in cui si mischia violenza ed indifferenza, in cui non si riconosce più il rischio e quando ormai il dolore supera la lucidità, l'uomo è trasformato in un animale vero e proprio con lo scopo della sopravvivenza che si tramuta in slancio animalesco, pulsione feroce e distruttiva. All'interno di questo inferno di cemento ogni sguardo diviene l'ago della bilancia tra la vita e la morte. Ogni passo falso costa dolore. Così in una storia cruda, senza fronzoli, colpisce la declinazione sinergica tra la drammaticità della vicenda e la spettacolarità crudele di alcune sequenze, a cui si mescola senza un intento puramente retorico una frecciata agli organi politici e in cui ancora una volta il vero grande sentimento che va al di là di ogni cosa e di tutte le difficoltà è l'amicizia...
"Si fa quel che si può".
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