L'inaspettato e considerevole successo di critica e pubblico de "L'uccello dalle piume di cristallo" creò attorno al giovane Dario Argento la nomea di erede nostrano di Hitchcock, diede la stura ad un genere - quello del giallo all'italiana - fino ad allora pacificamente considerato di serie b, non da ultimo polarizzando le attese dei produttori della Titanus nel successivo lungometraggio del (più che) promettente regista romano.
Ad un anno di distanza dall'esordio, "Il gatto a nove code" ('70) fu un grosso successo di pubblico, superando gli incassi del precedente film di Argento, con discreti riscontri di critica, componendo il secondo tassello della trilogia degli animali ormai in fieri, ed ispirando tanti altri titoli - più o meno improbabili - di gialli a sfondo "animalesco".
Nonostante tutto ciò, è interessante notare come "Il gatto" sia stato presto rimosso dalla memoria collettiva dei fans di Argento, e degli appassionati di genere, invecchiando precocemente e venendo relegato sovente ad episodio minore della filmografia del regista, che in diverse interviste successive ha sempre ammesso di non amare troppo questo film, ed, in sintesi, di non sentirlo propriamente suo. L'oblio calato sul film sembra, tuttavia, piuttosto ingiustificato, trattandosi di uno degli episodi più interessanti del cinema argentiano, meritevole non tanto di rivalutazione, quanto di uno sguardo maggiormente approfondito sui pregi del lungometraggio, oltre che sui suoi difetti, che pure non mancano.
Giova un sintetico riassunto del plot narrativo, ad uso di chi non abbia ancora veduto il film: l'enigmista cieco Arnò - con l'aiuto della piccola nipotina - collabora con il giornalista Giordani alla ricerca del misterioso assassino di alcuni medici del centro di ricerca Terzi, nel quale si studia - lombrosianamente - l'attitudine a delinquere di alcuni soggetti titolari della triade cromosomica xyy. Prima di scoprire l'identità del colpevole, sarà addirittura necessario violare la tomba di una delle vittime, fino ad un rendevouz sui tetti di una spettrale Torino.
Veniamo, innanzitutto, ai pregi del film.
La complessa trama del "Gatto", che qui ho solo schematizzato, viene sviluppata da Argento con una giusta ed equilibrata alternanza fra momenti drammatici e momenti maggiormente rilassati (con qualche tocco di ironia), rendendo nel complesso scorrevole un film piuttosto lungo. Ottima la scelta degli attori, fra i quali spiccano Karl Malden, Tino Carraro, Aldo Reggiani, Tiberio Congia, la piccola Cinzia de Carolis (poi doppiatrice di successo negli anni '80), l'allora intrigante Caterine Spaak (con un brutto topless, però) e lo stolido James Franciscus.
Le scene dei delitti sono, a mio avviso, fra le più belle e tese di tutta la carriera del nostro, nella loro stessa varietà: cruda ed angosciante la scena del delitto alla stazione, inquietante quella dello strangolamento del fotografo, estremamente realistica e disturbante, fra le altre, quelle dell'omicidio all'interno dell'appartamento. A mio parere, solo in "Profondo Rosso" Argento supererà gli standards definiti in questo film. Menzione a parte merita anche l'incursione notturna nel cimitero e la profanazione della tomba di una delle vittime, in cui lo spettatore è immerso in una atmosfera macabra e di terrore incombente, nell'attesa di un'aggressione che farà sobbalzare sulla sedia e sospettare di chiunque.
Molto valida anche la scelta delle locations, che fanno del "Gatto" un interessante thriller urbano, in cui non mancano inseguimenti automobilistici, incursioni notturne in case borghesi, dettagli di piazze, giroscale, trombe di ascensori, tetti, e tutto quanto contribuisce a definire l'angoscia metropolitana di tanto cinema argentiano, dove, per espressa ammissione dell'autore, la città è la vera matrigna (in contrasto con l'horror bucolico di un Avati, per intenderci).
La mia analisi non sarebbe tuttavia completa se non mi soffermarsi sui difetti del film, purtroppo affioranti qua e là.
Un primo rilievo attiene all'eccessivo affollamento di personaggi che animano la storia, rendendo la trama piuttosto frammentaria. Nel "Gatto" non assistiamo, invero, ad una discesa ad inferos del protagonista, teso a ricostruire una realtà frammentata dalla sua percezione delle cose (come ne "L'uccello" ed in "Profondo Rosso" soprattutto), ma ad una più comune indagine parapoliziesca, in cui l'investigatore occasionale e la polizia hanno occasione di collaborare nella scoperta del colpevole. Scoperta che non dipende, come in molti film di Argento, dalla ricomposizione della realtà sulla base del noto recupero del "particolare mancante", ma, in aderenza alla tradizione hard boiler americana, dallo stesso sviluppo degli eventi, o, se vogliamo, dalla "azione" dell'investigatore e dalla "reazione" dell'omicida.
In questo, "Il Gatto" mi sembra un giallo "scientifico", non solo per l'ambientazione ed il contesto della storia, e non solo per le ragioni che spingono il colpevole a delinquere, ma anche, e soprattutto, per la complessiva razionalità che permea lo svolgimento della storia e per il concatenamento di eventi, sullo stile "causa ed effetto", che porta alla individuazione dell'assassino.
Ciò, in ultima analisi, priva forse il film del fascino occulto di tanto cinema argentiano, dell'atmosfera sospesa dei suoi migliori lungometraggi, dell'aspetto irrazionale che accompagna l'azione dell'omicida di turno e, non da ultimo, della totale sorpresa destata dallo smascheramento del colpevole. Sorpresa che qui non manca, ma dipende unicamente dal fatto che l'assassino era solo uno dei nove potenziali colpevoli, una delle nove code del gatto, giusto per chiudere il cerchio.
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