Nel 1979 Dario Argento aveva ormai abbandonato da cinque anni i rassicuranti lidi del giallo classico, dopo la summa rappresentata da Profondo Rosso ('74), e, complice l'allora compagna di vita e opere Daria Nicolodi, si era spinto verso l'oceano del soprannaturale, anche sulla scorta di colte letture mitteleuropee o romantiche (Wedekind, De Quincey).

Da quel fervore, umano e culturale, nacque uno dei suoi film più acclamati - sebbene, a mio parere, irrisolto - come Suspiria ('77), pietra d'angolo della vaticinata trilogia delle Tre Madri, in cui si sarebbe narrato della triade di streghe tesa a governare il mondo: Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimarum.

Inferno ('79), che qui recensisco, rappresenta il secondo e, per ora, più discusso capitolo della trilogia, in attesa che Argento ci deluda (come "non" spero!) con il prossimo Mater Lacrimarum, che a trent'anni di distanza da Suspiria si accinge a concludere la serie di film dedicati alle streghe, segnando anche un interessante ritorno alla partnership artistica con la sodale d'un tempo.

Il collegamento fra Suspiria ed Inferno è puramente virtuale, dato che anche in questo caso si narra di una casa infestata da spiriti stregoneschi, non più nella tedesca Friburgo ma nella moderna New York. Per il resto, fra i due lavori non si ravvisano effettive connessioni.

Tanto premesso, Inferno è uno dei film più discussi dell'Argento prima maniera, che tanto lustro aveva dato al nostro cinema di genere e tanta impressione aveva destato negli spettatori, seppur nell'indifferenza - se non addirittura nel sospetto - di tanta critica cinematografica.

Spesso il film viene biasimato per il carattere estremamente esile della trama, quasi assente e ridotta in alcun passaggi a mero trait d'union fra omicidi spesso molto fantasiosi, e per lo straniamento che il lungometraggio genera nello spettatore: a ciò si obietta, soprattutto fra i veri appassionati del regista, come Inferno sia il racconto più geniale di un Argento ormai dimentico della possibile congruenza di ogni trama e propenso a dipingere l'azione della Male senza i media rappresentati, nei lavori precedenti, da psicopatici con guanti ed impermeabili; sotto il punto di vista tecnico, Inferno sarebbe il manifesto programmatico di una estetica della violenza senza necessità di raccontare una storia, di abbandono al virtuosismo puro senza trama musicale, quasi una partitura jazz in cui a stento si ravvisa un tema conduttore.

C'è del vero in ambedue le osservazioni.

Certamente Inferno risulta, per gli appassionati del giallo e dell'horror classico à la Hammer, un film difficile da comprendere, e nel complesso deludente, assommando agli evidenziati limiti la mancanza di un vero protagonista, la giravolta di personaggi e la non sempre felice scelta delle location. Non a caso Inferno fu un flop al botteghino, costringendo Argento a ritornare verso il giallo classico, seppur rivisitato con sensibilità più matura, nel successivo Tenebre ('82).

Va pur detto che, nel suo selvaggio sperimentalismo, grazie soprattutto ad una bella fotografia e ad un uso espressionistico di colori, musiche e volti (mai come in questo film si è rivelata interessante la scelta degli attori, alcuni, come Lavia e la Valli, già noti ad Argento), Inferno rappresenta un tentativo coraggioso di uscire dalle strettoie del genere "thriller - horror" che aveva fatto la fortuna del regista romano, offrendo al pubblico più smaliziato un prodotto unico e mai eguagliato da parte di altri cineasti. Il mancato successo del film (peraltro preventivabile, viste le premesse) indusse probabilmente Argento a ripiegarsi in se stesso, rinunciando alla carica innovativa che aveva sempre contraddistinto il suo cinema, ed inducendolo ad un declino che sarebbe stato precipitoso a partire dalla seconda metà degli anni '80, per durare in parte fino ad oggi.

Cercando di sintetizzare e mediare i due punti di vista, anche alla luce della mia personale esperienza, osservo come Inferno non debba essere apprezzato tanto come film di genere, cercando emozioni o paure (che pur non mancano), ma come film autoriale (forse l'unico di Argento), come una riflessione sulla paura e sulla violenza ed i suoi modi di innescarla e disinnescarla nel fare cinema.

Per queste ragioni preferisco non votare il film, lasciando ai commentatori della mia recensione il compito di quantificare questa curiosa, ed allettante, opera.

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