Dopo gli incresciosi flop de "La sindrome di Stendhal" e, soprattutto "Il fantasma dell'opera", nel 2001 Dario Argento torna a filmare un thriller di stampo classico sulla scia dei suoi migliori lavori dei primi anni '70, ambientandolo a Torino, munendosi di uno stuolo di vecchie glorie bergmaniane (Max Von Sidow), primi attori del teatro nostrano (Gabriele Lavia e Rossella Falk), giovani in carriera (Dionisi, Caselli, Zibetti).

Più ancora che in altri film del regista romano, aventi vaghe ascendenze letterarie, l'ispirazione per il soggetto del lungometraggio (al quale ha collaborato anche il noto giallista Carlo Lucarelli) trae spunto diretto da un romanzo di Ellery Queen (La tragedia di Y), del quale costituisce una sorta di seguito ideale: ci spiega, in sostanza, cosa sarebbe successo se, in quel romanzo, l'assassino non avesse fatto una brutta fine, e se dei suoi delitti fosse stato incriminato un innocente, dandogli così la possibilità di tornare a delinquere in tutta calma.

Questo è, infatti, il mistero attorno a cui ruota il film: nel 1983 uno scrittore nano si suicida in quanto accusato dei delitti di un misterioso serial killer attivo in una determinata zona del territorio torinese; diciassette anni dopo, un killer torna a colpire con tecniche analoghe a quelle del passato, portando un poliziotto ormai in pensione, già parte delle antiche indagini, a riaprire le indagini, adiuvato dalla polizia e da un parente di una delle prime vittime. La verità, come sempre, in un particolare ("sonoro") sfuggito ai più, e nel doppio senso di una poesia infantile.

Il lettore avrà già inteso da queste brevi note come "Non ho sonno" ricalchi, per ambientazione, attori, sviluppi narrativi, richiami a particolari sfuggiti, case abbandonate nella zona della Gran Madre, traumi infantili, passato che ritorna, doppi finali, false piste, omicidi in ambienti domestici le tracce di "Profondo Rosso", capolavoro indiscusso del maestro romano, già oggetto di un parziale rifacimento in "Trauma".

Di qui tutti i limiti del film, analoghi a quelli di "Trauma": storia trita per gli adepti al genere, scarso effetto sorpresa, trama gialla più solida del solito ma, comunque, piuttosto scipita. A ciò si aggiungano i difetti connaturati al cinema di Argento, ovvero maggiore attenzione alla forma ed alla confezione del prodotto che attenzione nella direzione degli attori, affidandosi all'autonomo senso della parte di alcuni vecchi leoni come Von Sidow, Falck e Lavia (quest'ultimo metaforicamente riassorbito nello "specchio" di Profondo Rosso, vista la parte recitata qui). Poco convincente, e di mestiere, la colonna sonora dei Goblin, chiamati a reiterare il solito binomio con Argento.

Detto ciò sembra che il film sia pessimo; il lavoro appare tuttavia salvato, fino a raggiungere la sufficienza, grazie ad alcune scene di autentica tensione, che riportano il regista ai fasti degli anni '70 (come l'iniziale inseguimento in treno, o l'aggressione di una vittima all'ingresso di casa e la decapitazione al balletto), ad un soggetto comunque apprezzabile per le ascendenze queeniane, al gusto di scoprire il colpevole e le motivazioni che lo animano. Soprattutto le correlazioni con i delitti del 1983 lasciano basito il lettore, che non abbia ovviamente già letto Queen o un libro di Agatha Christie che plagia, praticamente, Dannay e Lee: "E' un problema".

E negli anni 2000 si è ormai capito che per Argento è un problema, non solo uscire dai cliché, ma portarli a compimento con un pieno ed autoriale controllo dei propri prodotti. Peccato.

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