Come sincero appassionato del cinema di Dario Argento, non posso nascondere il fatto che, dalla metà degli anni '80, il regista romano ha patito dei passaggi a vuoto che, nel tempo, hanno forse ridimensionato la sua statura di cineasta, quasi cancellando quel molto di buono realizzato fra gli anni '70 ed i primi anni '80, vale a dire da "L'uccello dalle piume di cristallo" a "Tenebre". Si potrà dissentire sull'intrinseco valore del cinema di Argento, e sulla statura internazionale del regista, ma non si può certo negare che, in qual felice periodo, il nostro seppe girare una manciata di film che, pur non uscendo dal circuito del mero intrattenimento, dimostrarono un linguaggio originale e, soprattutto, alternativo rispetto a quello del cinema straniero. Certamente Argento arriva dopo Bava, Freda, Fulci, ma più di tutti il suo cinema fu popolare, creando nell'immaginario dei più una mitologia attorno al suo cinema ed al thriller all'italiana: in tale senso, l'esperienza di Argento può essere assimilata a quella di uno dei suoi mentori, quel Sergio Leone che, negli anni '60, indicò nientemeno che la via italiana al cinema western, superando il modello statunitense nella creazione di un nuovo linguaggio cinematografico. Mi si perdonerà la digressione, ma credo che la precisazione dei meriti del regista permetta di spiegare ancor meglio la delusione dello spettatore, e soprattutto dell'appassionato del cinema di genere, nella visione di questo "Opera" ('87), fra i punti più bassi della carriera del nostro.

Dico subito che, a mio personale parere, non vi è nulla da salvare in questo film. La trama è scipita, prevale una sorta di feticismo del macabro e del truculento, dove i delitti sono il vero epicentro estetico e narrativo del film e la storia finisce per essere relegata a mero pretesto per la loro rappresentazione. Il punto è che la cosa non sembra voluta, come programmaticamente avveniva in Inferno ('80), ma sembra piuttosto il frutto di un'incuria di fondo, di una mancanza di idee ed incapacità di costruire storie, come avveniva in passato, anche sulla suggestione della letteratura gialla e dei romanzi di Ellery Queen in particolare.

Gli attori sembrano scelti a casaccio, non solo per le scarse attitudini recitative (a stento si salva la solita Nicolodi), ma anche, e soprattutto, in considerazione dei ruoli che sono loro destinati nell'esile plot narrativo: senza addentrarmi nella descrizione della trama, osservo solo come un personaggio centrale del film sia affidato ad un giovane attore, quando, stando al soggetto, egli dovrebbe essere interpretato, perlomeno, da un cinquantenne. Ciò altera la stessa logica della trama, e la scoperta del solito assassino finisce per irritare, più che stupire, lo spettatore più attento. Mostra la corda anche la nota tecnica del "doppio finale", che tanto aveva reso apprezzabili "L'uccello dalle piume di cristallo" e "Profondo Rosso": il primo finale sarebbe già sufficiente a concludere il film, mentre i venti minuti conclusivi, ambientati in un contesto del tutto avulso dalle precedenti vicende, sanno di coda non voluta, di brodaglia utile ad allungare il minutaggio di una storia altrimenti destinata alle sole platee televisive, ma nel complesso inferiore alle migliori puntate del coevo Don Tonino (badate che non scherzo). Il commento sonoro è basato su un trito contrasto fra lirica ed heavy metal, già prospettato nel precedente Phenomena, che non solo appare piuttosto scontato, ma che, soprattutto, appare poco funzionale al genere trattato dal regista: un semplice confronto con le atmosfere jazz prog delle prime colonne sonore del cinema argentiano mette in luce la scarsa attitudine del metal anni '80 ad arricchire la rappresentazione filmica, assommando violenza sonora a violenza visiva, in maniera forse ipertrofica. Tali limiti non mi sembrano controbilanciati dalla efficacia stilistica di alcune scene, girate all'interno del teatro regio di Parma, che da parte di alcuni critici riscattano un film pacificamente mediocre. Ciò per la ragione che ad un giallo, o thriller che dir si voglia, si chiede innanzitutto un soggetto sufficientemente credibile, e solo in seconda battuta una valenza estetica.

Pessimo film dunque. A meno che anche Argento non sia stato vittima della maledizione del Macbeth, di cui tanto si parla in Opera.

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