Alla fine degli anni '80, dopo il mezzo flop di "Opera" ('87) e la complessiva decadenza del suo cinema, Dario Argento entrava in una irreversibile crisi artistica che i suoi adepti della prim'ora non mancavano di censurare, mentre il pubblico meno smaliziato e più impressionabile continuava ad affollare le sale per i suoi film, noleggiando magari i VHS dei lavori altrui che il nostro produceva e supervisionava ("La setta", "La chiesa", "Demoni" 1, 2 etc.).

All'epoca il regista romano non era, del resto, più assimilabile alla brillante promessa di fine anni '60 o al discusso caposcuola di fine anni '70, cominciando piuttosto a divenire "acclamato Maestro" del cinema di genere, sovente monstrum da esibire in varie comparsate televisive, come la sfortunata trasmissione "Giallo" ('87), con un Enzo Tortora ormai malato ed una Alba Parietti (ancora) in Oppini poco più che esordiente.

Il cinema di Argento aveva insomma perso quella carica iconoclastica che gli era propria agli esordi, risultando, piuttosto, maniera, come manieristico risultava il personaggio che il buon Dario interpretava - forse proprio malgrado - nell'immaginario collettivo nazionalpopolare. I suoi erano ormai lavori che impressionavano, ma non spaventavano e sconvolgevano più nessuno. Fu dunque positivo per Argento reinventarsi una nuova carriera e perciò trasferirsi, nei primi anni '90, in quegli States che lo mettevano sullo stesso piedistallo di un Cronenberg, di un Romero o di un Carpenter per girare il trascurabile "Due occhi diabolici" ('89) - proprio in collaborazione con Romero - e soprattutto il buon "Trauma" ('93), film che vado finalmente a recensire, ad uso e consumo dei miei quattro lettori di velluto grigio.

"Trauma" ci narra di Aura, giovane anoressica di origini rumene, che, al termine di una seduta spiritica tenuta dalla madre (esperta medium), vede decapitare i propri genitori da un misterioso assassino seriale, che semina il panico in città tagliando la testa a vari malcapitati. Aiutata da un giovane ex poliziotto con problemi di tossicodipendenza, Aura cercherà di scoprire l'identità del colpevole, che in realtà non colpisce a caso le proprie vittime, accompagnata dall'inquietante sospetto di essersi persa il classico "particolare che non affiora", la sera del delitto dei propri cari.

Intrigante e ben girato sotto il profilo prettamente tecnico, "Trauma" si giova di un bel finale a sorpresa che ci riporta ai primi lavori di Argento, risultando, nel complesso, un valido film di genere, certamente il miglior lavoro del regista romano da "Tenebre" ('82) in avanti. Gli ambienti, soprattutto gli interni, sono claustrofobici, la pioggia incessante che accompagna le gesta dell'omicida permette di ricostruire un cupo clima da fiaba nera (à la "Suspiria"); gli espedienti narrativi sono consumati ma ben gestiti, dai soliti flashback, alle scene di preparazione dell'omicida (con chiaro citazionismo da "Profondo Rosso"), alla vera e propria sottostoria del ragazzino che abita vicino al covo dell'omicida, e che risulterà un vero e proprio deus ex machina per la soluzione della vicenda (un po' come il Diomede di "Quattro mosche").

Parimenti, "Trauma" presenta dei grossi limiti che contraddistingueranno anche il successivo cinema argentiano.

Primo limite è quello di scegliere come protagonista del film l'acerba, e non esattamente brava, figlia Asia, ai tempi adolescente problematica ed attrice quantomeno dilettante. Il ruolo di Aura appare a mio parere troppo delicato nell'equilibrio narrativo del film per essere affidato, familisticamente, alla giovane figlia di Dario e della sua ex musa Nicolodi (che vent'anni prima avrebbe fatto faville in un ruolo simile). Non troppo azzeccati anche gli attori di contorno, eccezion fatta per il breve cameo dell'esperta Piper Laurie. Secondo limite è quello di indulgere eccessivamente nell'auto/citazionismo, con fitti richiami interni ai precedenti lavori, che, in maniera subliminale, strizzano l'occhio ai vecchi estimatori del regista romano, ma celano un perdurante calo di ispirazione, appena salvato dal mestiere e dalla impeccabile confezione del fillm.

A ciò si accompagna un certo straniamento nel vedere le storie argentiane ambientate negli Stati Uniti, specie essendo abituati alla italianità delle sue storie, alla familiarità delle locations esterne che facevano sentire lo spettatore medio ancor più immerso nelle varie trame nere dei primi lavori del regista romano.

Il terrore appare quasi come depotenziato, perché allontanato fisicamente dallo spettatore, risultando ridotto a puro intrattenimento, che non ci segue più fino a casa, una volta usciti dal cinema, come avveniva dopo la visione di un "Profondo Rosso", quando guardavamo dentro il nostro guardaroba prima di coricarci, per non fare la fine di un'Amanda Righetti qualsiasi.

 

P.S.: in settimana dovrebbe uscire nelle edicole un volume con romanzi di Ellery Queen. Uno di questi ha chiaramente ispirato il finale del film, non vi dico quale per non togliervi eventuali sorprese.

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