TAPPETI ARTIGIANALI E TORRI CHE CROLLANO, VERO E FALSO.
Quando entro nel teatro i miei giovanissimi amici afgani sono tutti nella medesima fila, al centro della platea. Io mi siedo nella seconda, approfittando dell’assenza di qualcuno che aveva il posto riservato, e ascolto un anziano architetto che commenta immagini proiettate su uno schermo alle sue spalle.
Ha iniziato a visitare l’Afghanistan oltre 40 anni fa, ed è tuttora impegnato in lavori di recupero e consolidamento di alcune opere architettoniche sopravvissute alla travagliata storia di quelle terre.
Riesce a evitare eccessi di retorica, infilando qualche curioso aneddoto nel suo discorso. Ma l’immagine di un tappeto artigianale (l’Afghanistan ha una tradizione secolare di grandissima raffinatezza) che riproduce lo schianto degli aerei sul W.T.C è l’occasione per una sorta di monito piuttosto abusato, ancorché vero: quanto sia sempre più labile, specie nella percezione dei “nostri figli o nipoti” il confine tra realtà e fiction. Storie incredibili ma iper realistiche interiorizzate come vere, aerei che perforano grattacieli osservati come uno dei tanti effetti speciali di un videogioco.
Così che più tardi, concluso il lungo intervento e abbandonato il palco, mi strappa un sorriso quando, prima che si spenga il lungo applauso del pubblico, torna al microfono per precisare: “Quello che ho detto è tutto vero”.
Non servono più di una decina di minuti a due solerti giovanotti per liberare il palco da tavolo e sedie e sistemare a terra un grande tappeto sul quale adagiano alcune percussioni ed uno strumento a corde.
Pochi minuti dopo entrano questo signore dalla barba brizzolata, con il tradizionale cappellino multicolore, ed un giovane ipercrinito in lungo abito dorato.
Sedutisi a gambe incrociate, nel silenzio assoluto del teatro, iniziano l’accordatura degli strumenti. Il bip di un cellulare produce l’immediata e muta reazione del giovane: sollevando lo sguardo dalle tablas lo indirizza verso il pubblico e con gesti semplici ma espliciti mima prima l’atto del telefonare, quindi quello di un deciso divieto e poi quello più diretto ed efficace dello sgozzamento. La platea accoglie con una risata, ma da quel momento non si udranno altri suoni che quelli prodotti dai loro strumenti.
INCROCIO DI CULTURE, POESIE SENZA PAROLE.
Daud Khan è un virtuoso suonatore di robab, una sorta di liuto con tre corde principali ed altre in risonanza. Il suo repertorio è basato sulla tradizione afghana e rielabora in forma esclusivamente strumentale brani all’origine anche vocali, ma la sua perizia esecutiva è in grado di consegnarne una versione ricca di sfumature melodiche quasi materializzando il canto.
Nei lunghi brani che vengono eseguiti rintraccio spesso affinità con la musica tradizionale indiana, come se si trattasse di ragas attraversati da una maggiore dinamicità ritmica, da linee melodiche ed intrecci più marcati e ricercati. Ed echi di musiche classiche persiane, che ho avuto modo di ascoltare molti anni fa. Scoprirò in seguito, conversando con Khan, che tali affinità sono effettivamente presenti e sono parte dell’inevitabili influenze della storia di quell’area.
Il percussionista indiano che lo accompagna (Edourd Prabhu) è anch’egli un virtuoso: la perfetta simbiosi tra i due ci consegna momenti quasi ipnotici, con variazioni costanti dei timbri delle percussioni e una raffinatissimo tocco delle corde del robab da parte del maestro afghano, che passa da un’enfasi ritmico melodica reiterata a dei pianissimo di una tale precisa delicatezza da giungere alla platea nitidi pur in assenza di amplificazione.
I brani si susseguono quasi senza soluzione di continuità e confesso che dopo un iniziale titubanza, di fronte alle molte riproposizioni di temi con infinite variazioni, lontane dall’idea di “sviluppo” del brano al quale siamo abituati, il “senso” di questa musica si è imposto in tutto il suo potere: meditativa ed epica, raffinata e ipnotica, è una musica VERA.
Nata, in alcuni casi, per ospitare la secolare tradizione di poesia cantata (ghazal) conserva la propria secolare poesia anche in assenza di parole.
Il problema è, semmai, nell’ascolto. Troppa reificazione della musica, troppe abitudini agli stereotipi, spesso ci impedisco semplicemente di ascoltare, di “sentire”. Scambiamo “effetti speciali” per musica, e ci mettiamo in ascolto solo se le tradizioni altre sono condite con qualche gadget che ci sia familiare.
UN ALTRO MONDO.
Ma quando le ultime note dei bis si sono spente avrei volentieri ricominciato da capo un’immersione in quel limpido mare sonoro, così distante da quello al quale siamo abituati (Mi accontenterò del disco, acquistato all’uscita)
Invece, accese le luci, sono salito sul palco, insieme ai miei giovanissimi amici, per salutare e ringraziare i due musicisti. I ragazzi afghani sono fuggiti qualche anno fa, soli come agnelli impauriti e senza una meta precisa, dall’incubo di un paese martoriato. Non hanno memoria di queste musiche, conservando nei loro lettori mp3 solo alcune buffe canzoni pop scaricate dalla rete, dove melodie spesso tradizionali sono addizionate di ingenue basi elettroniche. Ma è stato quasi commovente, per un cinico osservatore occidentale, cogliere la sincera emozione dell’incontro tra loro ed un passato sconosciuto (il loro passato, la storia del loro paese) rappresentato da quel signore brizzolato e da una musica che stanotte loro ascolteranno prima di addormentarsi, sognando di una casa che non esiste più, in una terra che sperano di rivedere e che temono di aver perso per sempre, mentre diventano uomini in questa città che li ospita, in questo altro mondo che stanno imparando a conoscere.
E’ possibile ascoltare l’eccellente lavoro di Daud Khan (da molti anni residente in Germania) grazie ad un’etichetta italiana, che da tempo volevo segnalare, per la serietà e la ricchezza del suo catalogo. Trovate il link in more info.
Il concerto, gratuito, era parte del ricco programma di “Settembre Musica”, che potete consultare all’indirizzo: http://www.comune.torino.it/settembremusica/2006/index.htm
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