E così, a distanza di quarant'anni, Michael è tornato. Un'altra fuga, un nuovo ritorno nella piccola originaria Haddonfield.

Tutto quel che c'è stato nel frattempo, dalle svolte narrative ai rifacimenti, prontamente e convintamente rimosso. Eliminate, addirittura sconfessate e rinnegate, quindi, le forzature che hanno fatto la storia della saga come gli improbabili legami di parentela tra Michael e Laurie, che si erano però, poi, trascinati dal secondo capitolo in poi e fino ai film di Zombie. Eliminata ogni deriva umanizzante nei confronti dell'Uomo Nero, derive proposte proprio da Zombie, per l'appunto, con risultati tra il mediocre ed il pessimo (seppur da alcuni apprezzati ma, a mio avviso, sopravvalutati). Tentativi di umanizzazione del mostro che, se da un lato mostravano voglia di dare un tocco personale senza seguire in maniera troppo riverente il modello originale, dall'altro snaturavano, almeno parzialmente (non che mancassero riferimenti all'indole malvagia del soggetto), l'essenza ultima ed intaccabile di Myers: Michael è il Male puro, negli occhi non ha niente, agisce in nome di una cieca ferocia primordiale, di una sete sanguinaria insoddisfabile e senza ragioni psicoanalitiche, traumi dell'infanzia, abbandoni e/o altro. Egli sente semplicemente la chiamata all'azione, come l'accensione di un sacro fuoco di crudeltà, ancor meglio, ovviamente, nel periodo dell'anno dove tutto iniziò con l'uccisione di Judith. Ed è tenuto in vita, pur in cattività, incatenato, osservato a vista, covando tutto in silenzio anche per decenni, in ragione della sua natura predatoria e consapevole di essa.

Questo il più grande merito di questa operazione, di questo nuovo sequel firmato da un regista eclettico come David Gordon Green e dagli sceneggiatori: riportare, ed in questo offre anche una suggestione aggiuntiva il ritorno dell'interprete originale Nick Castle, Michael ala sua oscura purezza.

Per il resto, il film non propone niente di nuovo nella struttura da film di genere, che resta piuttosto tradizionale nella sostanza, non osa più di tanto in particolari divagazioni autoriali (e visti i risultati ottenuti da Zombie di cui sopra, questo non è un male) ed i personaggi insulsi che vengono via via sterminati prima del climax finale sono sempre al loro posto, in mezzo alle tante altre vittime designate. E senza, in ogni caso, essere però, per questo, un semplice prodotto nella media. Tolte infatti un paio di ragguardevoli eccezioni come i remake de La Casa di Alvarez e quello de Le colline hanno gli occhi di Aja, entrambi prodotti non certo clamorosi ma degni di nota, rispetto al (quantitativamente) vario mondo dei sequel, più o meno apocrifi o ufficiali (ho ancora negli occhi la scempiaggine realizzata col recente Leatherface...), dei remake/reboot/sequel dei remake e dei reboot dei classici, Halloween 2018 è sopra la media. Dal punto di vista stilistico senz'altro, quantomeno, con anche alcuni virtuosismi notevoli.

Per carità: niente che faccia gridare all'avvenuto miracolo, alcune cadute di tono e svolte sopra le righe non mancano (su tutte, ad esempio, quella riguardante il medico di Michael, "erede" dell'indimenticato ed iconico Loomis); gli omaggi (bellissimi i titoli di testa!) ed i richiami sono a volte smaccati, in un paio di momenti, in questo, mi ricordano quasi il sequel di Trainspotting. Altro ritorno a distanza di molti anni. Ma se lì c'era un discorso ampio sulla nostalgia del tempo perduto e sui corsi e ricorsi, qui non c'è né nostalgia né niente di affine. Ma solo ricordo, deja vu. In preparazione al momento del(l'eterno) ritorno o in ragione di un ribaltamento dei ruoli. Anche questo non sarà sicuramente niente di originale, ma comunque, nel risultato, efficace nell'economia della narrazione.

La violenza, pur sempre brutale, è, come fu con Carpenter (e con l'altro maestro slasher Hooper...), più suggerita e accennata che mostrata ad uso e consumo del voyeurismo dello spettatore. Nessuna pornografia della morte, insomma.

Nel complesso, è quindi un lavoro che non delude le attese, nell'ovvia impossibilità di replicare, o anche solo "aggiornare" (moda nefasta e terribile alla quale, grazie al cielo, D.G. Green si tiene alla larga non cadendo alla tentazione di tirare in ballo social e varie amenità odierne, come nei casi dei remake di Carrie o in quello, pur sostanzialmente godibile, del Giustiziere della Notte firmato Roth) la genialità e l'impatto del capolavoro carpenteriano.

Alla fine, quel che ci si chiede, il succo finale del tutto, è questo: è ancora possibile credere, quindi, all'Uomo Nero, simbolo metafisico, universale e praticamente, inspiegabilmente immortale, dell'incarnazione del Male e non semplice serial killer psicopatico? Ma soprattutto, è ancora possibile, nel mondo odierno dove, rispetto anche all'uccisione di alcune babysitter a caso "c'è molto di peggio", poter essere affascinati ed impressionati da un personaggio come Michael Myers? Rendere interessante una storia come questa senza inutili cazzate sociologiche come quelle di cui sopra? La risposta di David Gordon Green, e la mia personale, è Sì.

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