“Dune” di David Lynch è senza dubbio un fallimento… ma che affascinante fallimento! Uscito nelle sale tra grandi annunci (e aspettative) nel dicembre 1984, venne da subito demolito dai critici e lasciò interdetto il poco pubblico che gli prestò attenzione. Subito il film si fece fama di essere una paccottiglia incomprensibile in una successione di scene disturbanti; il guaio è che tutto sommato ciò corrisponde ancor oggi a realtà. Dino De Laurentiis investì circa 40 milioni di dollari nella sua produzione (all’epoca una cifra enorme) e scoprire come si sia potuti arrivare ad un finale del genere merita almeno di esser indagato.

Il romanzo omonimo di Frank Herbert fin dalla sua pubblicazione (1965 nella sua forma finale) viene salutato come un capolavoro aggiudicandosi i premi Hugo e Nebula, i due massimi riconoscimenti in quest’ambito; ad oggi è il libro di fantascienza di maggior successo con oltre 12.000.000 di copie vendute. Non sorprende quindi che il romanzo non tardi ad attirare l’interesse dell’industria cinematografica, questo nonostante la sua articolata trama che un certo George Lucas non esita a definire “infilmabile”.
Ambientato nel 10191 dopo che una guerra tra umanità e intelligenza artificiale ha portato alla proibizione dell’impiego e sviluppo di quest’ultima, “Dune” ci catapulta in un futuro che somiglia più ad un passato feudale, con imperatori, casate e baroni che combattono tra loro per il controllo di un desolato pianeta completamente deserto, Dune appunto, che ha l’unicità di ospitare giacimenti di “spezia”, preziosa sostanza dalle molte proprietà tra le quali allungare la vita, donare preveggenza e nientemeno che piegare lo spazio-tempo permettendo di “viaggiare senza spostarsi”. A complicare le cose, c’è il fatto che nel sottosuolo di Dune viaggiano giganteschi e voraci vermi (la spezia deriva dalle loro feci) e che la popolazione indigena, i “Fremen” stanno organizzando contro le varie casate una "jihād"(letteralmente), in attesa di un profeta che la guidi. Il fatto che Herbert sia stato per alcuni anni un giornalista inviato in Medio-Oriente vi può suggerire le sue fonti di ispirazione. Se a questo aggiungiamo la presenza di una Gilda dei trasporti spaziali molto influente a livello politico, capace di dettare ordini pure all’Imperatore galattico Shaddam IV e di una sorellanza chiamata Bene Gesserit che si è data il compito programmare da millenni accoppiamenti tra i più promettenti giovani della casate allo scopo di ottenere lo "Kwisatz Haderach”, l’essere supremo e che questi pare essere proprio Paul Atreides, figlio del Duca Leto e nuovo governatore di Dune… Insomma se vi state perdendo credetemi, non è solo colpa mia.

Un universo del genere non può che affascinare il talento visionario di Alejandro Jodorowsky che nella metà degli anni ’70, reduce del successo de “La Montagna Sacra” (1973), mette assieme un cast che comprende tra gli altri Gloria Swanson, Mick Jagger, Orson Welles e Salvador Dalì, contatta per la colonna sonora i Magma e i Pink Floyd e si fa disegnare gli storyboard da Foss, Giger e Moebius. Nonostante tale magnificenza, le case di distribuzione americane non si fidano a sostenere un progetto così faraonico nelle mani di un regista considerato “pazzo”; non aiuta il fatto che Frank Herbert disconosce completamente la sceneggiatura di Jodorowsky e il progetto rimane ancor oggi uno dei più grandi “… e se?…” della storia del cinema. Per chi fosse curioso a riguardo, questo intrigante e sfortunato tentativo è ben raccontato nel documentario “Jodorowsky’s Dune” (2013) di Frank Pavich.
I diritti del libro passano nel frattempo nelle mani di Dino De Laurentiis che, non senza buon fiuto, decide di proporre il progetto ad un regista poco più che esordiente, Ridley Scott, che pur scartando la sceneggiatura di Jodorowsky inizia a lavorare in pratica con lo stesso team; purtroppo a causa dell’eccessivo protrarsi della pre-produzione, di un grave lutto che colpisce il regista e degli strali di Herbert che neanche questa volta gradisce lo script, Scott molla tutto e sposta in blocco il gruppo di lavoro su di un altro progetto fantascientifico, molto più lineare nella trama ma terribilmente efficace, “Alien” (1979). E così pure il Dune di Scott rimane un altro grande “… e se?…”.

Ed eccoci arrivati a Lynch che all’epoca vanta un allucinato esordio arthouse, “Eraserhead” (1977), e il più accessibile ma non meno suggestivo “Elephant Man” (1980), film da 8 candidature agli Oscar, regia compresa.
David Lynch è insomma il nuovo “hot name” a Hollywood, colpisce la sua innata capacità di rendere tangibili, reali, situazioni oniriche con personaggi inusuali anche se nessuno sembra ancora cogliere la sua marcata autorialità, caratteristica che diventerà ben manifesta nei lungometraggi successivi a “Dune”. A dimostrazione di ciò basta citare l’episodio che vede proprio George Lucas proporgli la regia de “Il Ritorno dello Jedi” (1983) al quale Lynch risponde "It's your thing, it's not my thing.” Insomma, un altro grande “… e se?”, e qui ne avremmo visto delle belle. Quando successivamente lo contattano Dino e Raffaella De Laurentiis, Lynch per sua stessa ammissione sente che “Dune” può essere invece “his thing” e vi si butta anima e corpo tanto da arrivare a sviluppare in piena autonomia ben 5 versioni della sceneggiatura per un film della durata prevista di almeno 3 ore.

Nel marzo del 1983 le riprese finalmente prendono il via (i faraonici set sono in costruzione già da tempo), la Universal si aggiudica i diritti di distribuzione, viene assemblato un cast artistico e tecnico di prim’ordine ma come protagonista viene coraggiosamente ingaggiato un esordiente, quel Kyle MacLachlan che continuerà anche in futuro a lavorare proficuamente con Lynch e che dichiara di tenere, fin da quando era quindicenne, il romanzo di Herbert sul comodino “come fosse la sua Bibbia”.
Per ragioni di convenienza economica la lavorazione fa base negli studios di Città del Messico dove vengono costruiti 75 set e ingaggiate 2000 persone per ripulire tre miglia quadrate di deserto per le riprese in esterni. La lavorazione, blindata alla stampa, si protrae per sei mesi con l’avvicendarsi sul set di Max Von Sydow, Jürgen Prochnov, Silvana Mangano, Virginia Madsen, Brad Dourif, Freddie Jones, Josè Ferrer, Patrick Stewart, Dean Stockwell, Jake Nance, l’affascinante Francesca Annis, la splendida Sean Young, addirittura Sting e altri ancora. Ma sarà, almeno per chi scrive, uno dei nomi meno “altisonanti” ad offrire l’interpretazione più memorabile, l’intensa e inquietante Siân Phillips nel ruolo della Reverenda Madre Mohiam. La lavorazione, che impegna circa 1700 addetti, si protrae per ben 6 mesi cui seguirà il lavoro di post-produzione e di creazione degli effetti speciali per un Lynch ormai sull’orlo dello sfinimento. Ma al di là di questo e dello sforamento budget di 4 milioni di dollari (va bè, rispetto a quel che aveva combinato Cimino qualche anno prima erano bazzecole) fin qui tutto fila, tanto che i De Laurentiis, entusiasti dell’esperienza, già pianificano, sempre assieme a Lynch, ben due seguiti tratti dagli omonimi romanzi di Herbert, “Il Messia di Dune” e “I Figli di Dune”. Progetti che non vedranno mai la luce, anzi che nemmeno muoveranno i primi passi, perché è da questo momento in poi che iniziano i veri problemi.

Dopo una prima copia lavoro della durata di circa 4 ore, Lynch e la produzione arrivano a quello che considerano il montaggio finale che come da sceneggiatura è attorno alle 3 ore. Lo presentano alla Universal che però lo contesta, lamentando che gli accordi prevedono una pellicola di 2 ore, perché durate maggiori compromettono il numero quotidiano di proiezioni nelle sale. Niente di artistico quindi, solo questione di dollari. De Laurentiis, a questo punto molto esposto economicamente, non se la sente di incrociare le armi con la Universal (ci penserà l’anno successivo Terry Gilliam per il suo “Brazil”) e arriva al compromesso di 137 minuti; Lynch, che non ha il “final cut”, non si tira indietro, assieme ad Antony Gibbs mette mano alle forbici, riconvoca Virginia Madsen per un prologo, aggiunge altre voci fuori campo, soprattutto cerca di operare in modo che della sua visione ancora traspaia qualcosa. Così sarà in effetti, ma il film, già complesso di suo, con quasi tre quarti d’ora in meno diventa un guazzabuglio incomprensibile e in questa forma viene distribuito nelle sale.
Prevedendo lo smarrimento dello spettatore, nelle prime settimane di programmazione si arriva perfino a fornire in biglietteria un “foglio si sala” che, oltre ad esaltare lo sforzo produttivo che ha originato film, riporta cenni di trama nel tentativo di facilitarne la fruizione. Ma non basta. Assistere per la prima volta alla proiezione di “Dune” richiede davvero uno sforzo immane, troppe le informazioni di cui viene bombardato lo spettatore, troppe le situazioni slegate tra loro, troppe le parole “aliene” che non si riescono a decifrare, troppe le bizzarrie che si rivelano poi inconsistenti alla trama. Sì perché Lynch, nell’operare i tagli, non ha rinunciato a “devianze” che, come si vedrà in seguito, costelleranno a tutta la sua cinematografia, con suggestivi momenti allucinatori (pur presenti anche nel romanzo) e visioni disturbanti se non del tutto ripugnanti (mani e guance in disfacimento, feti insanguinati, pustole siringate, insetti schiacciati per berne il succo, cuori letteralmente stappati, sì stappati non strappati… mi fermo qui). Siamo quindi lontani da quello che veniva annunciato come il nuovo franchise erede di “Star Wars”, qui c’è materiale per traumatizzare i ragazzini. Altro stilema “lynchiano”, la recitazione è spesso molto sopra le righe e nel caso degli Harkonnen (la casata dei cattivi) va oltre il teatrale sconfinando nello psicotico. In più, le scene di battaglia sono sì affollate, ma non sono certo il pallino del regista tanto da esser girate con uno stile che pare degli anni ’50; si comprende che Gibbs, di per sé un ottimo montatore, con il materiale che si è ritrovato in moviola a ha fatto quel che ha potuto. A livello estetico però, forse la pecca più grande risiede negli effetti speciali, già per lo più datati all’epoca dell’uscita del film; i talenti messi in campo c’erano eccome (Rambaldi, West, Withlock) ma pare che l’andare fuori budget delle riprese sul set abbia compromesso l’investimento in questo ambito. C’è poi quel gusto del “posticcio” al limite del trash, anch’esso tipico della poetica di Lynch. Sublime in altre pellicole, forse equivoco in questo caso.

E quindi com’è possibile che dopo quasi quarant’anni ancora stiamo discutendo di questo film?
Perché “Dune” è comunque unico nel suo genere, sospeso magicamente com’è tra pellicola a la “grindhouse” e installazione artistica; perché le scenografie di Anthony Masters e i costumi di Bob Ringwood mescolano abilmente i telefoni degli anni ’30 con i mosaici della basilica di S. Marco e le sinergie muscolari dell’anatomia del Gray. Ambienti in legno per Caladan, il pianeta delle acque; oro per Kaitain, sede dell’Impero; metallo per il totalmente industrializzato Giedi Primo; roccia e intarsi di minerali per Dune. Perché dopo l’esperienza avuta con i Queen per le musiche di “Flash Gordon” (1980), De Laurentiis si rivolge questa volta ai Toto che, senza che nessuno se l’aspetti, gli regalano una colonna sonora memorabile, (senza dimenticare il contributo di Brian Eno, compositore inizialmente preferito da Lynch); perché “Dune” è pieno di immagini e atmosfere che ti rimangono incollate al cervello già dopo la prima visione; perché alcune interpretazioni, sia tra gli eccessi, lasciano il segno; perché, nonostante tutte le sue pecche, è comunque una pellicola che davvero ti catapulta in un universo alternativo, che all’inizio certo ti respinge ma quando ti accoglie si trasforma in un’esperienza unica che invita a ripetute visioni e da qui lo status attuale di cult. Infatti, nonostante Lynch, ferito da quanto accaduto, non abbia più voluto metter mano al girato, sono stati realizzati anche in epoca recente vari tentativi di ripristinare il film alla sua forma completa. Per la cronaca, il più riuscito “restauro” è forse quello di “Spicediver” che è disponibile su YouTube e che dimostra come il film in origine fosse molto meno scombinato di come ci è stato presentato; paradossalmente forse è questa la versione da vedere (purtroppo non sottottitolata in Italiano).

A conclusione, è degno di nota che, nonostante il finale del film travisi assurdamente lo spirito del romanzo, Frank Herbert difenderà strenuamente la pellicola, sia al momento della sua controversa uscita nelle sale che negli anni successivi (Herbert morirà nel febbraio del 1986).
Dunque, che affascinante fallimento è questo “Dune”! Un film forse da “perdonare” per riscoprirne l’originalità e arditezza, in attesa del “Dune part 1” di Denis Villeneuve, annunciato virus permettendo per il dicembre di quest’anno. Sì, il regista canadese ha imparato la lezione e il racconto verrà saggiamente diviso in 2 film. Buona visione.

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