L'ultimo atto, il sipario è calato sul sogno e ci siamo tutti svegliati con una sensazione di disagio e spaesamento. David Lynch e Mark Frost hanno messo l'ultimo punto alla loro creatura, ma un punto che si deforma fino prendere la forma dell'infinito matematico. "The Return" è stato tanto, un film di diciotto ore dense di Lynch e del suo mondo, particolari che sembravano di poco conto hanno acquisito significati importantissimi e personaggi apparentemente fuori contesto hanno avuto il loro perché. Non si può trovare una spiegazione razionale e logica al finale della storia, o del sogno della ragazza in fondo alla strada, di Twin Peaks perchè farlo segnifica entrare in una spirale infinita che può condurre solo alla pazzia o alla dissoluzione come Phillip Jeffries in una nube di fumo dentro una teiera gigante. Alla fine non è stato un semplice tornare alla città dei picchi gemelli dove "il mondo non è ancora arrivato" è stato molto di più, forse un sogno in cui elementi reali si diluivano in un mare di fantasia grottesca e incubi inquietanti. Ma fin dalle prime inquadrature, la scatola di vetro in un loft di New York, si era capito che questo tornare sarebbe stato risolutivo, forse, sicuramente eccitante e disturbante ancor di più dei venticinque anni precedenti. Il grido finale che lacera la tranquilla notte di una strada di periferia rimarrà per sempre impresso, la consapevolezza che il tutto non può avere una spiegazione ma ci si deve abbandonare al fatto che può essere il tutto intangibile e manipolabile dalla propria coscienza.

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