Apro l'ombrello in attesa di una pioggia di ceneri.
E' questo che penso quando sento il vagito infernale delle creature che scaturiscono dalle membra buie dell'Italia, una madre che ha imparato ad essere culturalmente sorda a causa della morte che aleggia nelle capacità neurotiche dei suoi (in)abitanti. Vagiti in divenire urla e sintomi di fine imminente, perdita e inconclusione. Più facile perdere la strada che trovarla, ma anche a viaggiare in una palude non è così brutto. Questo è il sound dei Dead Elephant, la palude limpidamente annerita dal caustico studio di queste morti. Tanatologia in riverberi devastanti, annientamento dell'essere, e così si da il via al funerale: "Bardo Thodol" è la lettura d'apertura, mentre il feretro sfila tra gli ascoltatori, al ritmo di marcia di chitarra e voce narrante/neniante, entra di prepotenza la sezione ritmica, un basso unsano che si fa strada tra i colpi di cassa, fino all'apertura verso urla mostruose, 14 minuti di inferno, tra suoni magnetici e tonnellate di distorsioni. "On The Stem" si apre con una melodia funebre persa nei tempi, che introduce a melodie siderali, a voci in un soffio di morte, addirittura in aperture corali verso lidi Sleepiani/Zuiani. Il nervo duro e impazzito del disco è "Destrudo" che, oltre ad abbassare vertiginosamente il minutaggio del lavoro, ne accellera anche i tempi, macinando assieme attitudine e velocità/rabbia hc a demolimento sludge, fino all'abbandono degli ultimi 16 minuti di questa creatura terrificante.
"...quando mi aggiro solo nel Bardo[...]permettete che le tenebre dell'ignoranza vengano dissolte..."
Conviene aprire le orecchie.
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