Viviamo in un mondo che rigurgita meccanismi.

Deliri freddi, malattie quantiche, singulti automatizzati, luminescenze che devastano le cornee, movimenti prestabiliti. Istituzione dell'immobile e della ripetizione. Se chiudo gli occhi e immagino (quando l'immaginazione è semplicemente una reiterazione di qualcosa passato su uno schermo) riesco a vedere un posto dove tutti questi elementi vivono in sinergia tra loro ed alimentano le menti degli esseri umani: New York. Un enorme Moloch americano (non troppo distante da quello FritzaLangiano) che divora mente e corpo di chi vi abita. E che ispira. Che siano le fotografie di Berenice Abbott che, a mio modo di vedere la cosa, dipingono la crisalide del mostro in vetro e cemento che sarà, o che siano le sequenze di un incrocio che vomita (quasi letteralmente) metallo e carne che si fondono assieme, che corrono, che si urtano, che non vedono del film "Baraka" di Ron Fricke, o le grida lancinanti provenienti dal sassofono di John Zorn, o ancora i castelli elettronico/ritmici della macchina chiamata Nerve e che fa capo ad un robotico sciamano tribale proveniente dalla svizzera chiamato Jojo Mayer non fa alcuna differenza. 

Ed è proprio dalle costruzioni alienanti di questa città (e, of course, di mr.Mayer) che prende forma la materia che modella con armonia ed irruenza quasi ferine Deantoni Parks, che dopo essersi fatto macchina del ritmo per, tra gli altri, John Cale, dei Mars Volta e il loro capoufficio prolisso/prolifico/allucinogenetico Omar Rodriguez-Lopez e di madame Me'shell Ndegeocello decide di ballare da solo. Ma non è un mero esercizio di stile. È una ricostruzione di un meccanismo moderno che puzza di elettrogenesi batteristica impazzita e chirurgica allo stesso tempo. Deantoni sventra, sintetizza, ricompone e martoria la sua batteria e non solo. Spezza le ossa al downtempo e lo ricrea mentre passeggia sotto il cielo plumbeo di una Amsterdam costellata di cavi scoperti, apre i sintetizzatori a cascata e li bombarda a ritmo spezzato di sincronie industriali, rievoca mutanti ottantiani e li getta nella jungle. Incasella chitarre sintetiche su costruzioni controtempo per raddrizzarle all'interno di meccanismi degni dell'orologiaio svizzero di cui sopra. Rende il dancefloor (è questo il campo da gioco che lo vogliate o meno) un carnaio elettrico o il figlio bastardo di un sogno glitch, impartisce lezioni di dubstep (quella che rompe le ginocchia coi bassi per intenderci) a dj che non hanno la più vaga idea di come si faccia sul serio (che al giorno d'oggi significa: successo e soldi a spron battuto). E quando il mostro meccanico mostra il suo lato umano ha la voce di questa signorina chiamata Betty Black, nomen (w)omen, la cui voce è nera e suadente e danza sensuale e liquida sui ritmi del Nostro, che tratta il tempo come un elastico, come se non gli importasse nulla di andar veloce o meno su un pezzo pop-oriented da far schifo (ma che schifo decisamente non fa).

Che questa madre di tutti i mostri ci doni ancora ispirazioni come queste. Ne abbiamo bisogno. Almeno io ne ho.

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