Con grande rammarico giungo ai cospetti dei Gorguts a set quasi terminato: da quel che colgo dal pezzo e mezzo da me fruito (fra cui una coinvolgente riproposizione di “Obscura”) ho come l’impressione di essermi perso la miglior death-metal band che abbia mai posato piede su un palco: l’esecuzione della band è impeccabile, precisissima, oserei dire chirurgica (con una sorprendente attenzione ai dettagli), rispettosa della complessità assurda del sound della band, nonostante l’alto tasso di brutalità. In mezzo a questo inferno: il carisma cubitale del mastodontico ed occhialuto front-man Luc Lemay, figura mitica e paradossale, capace di annettere a sé aria da intellettuale ed al tempo stesso bestialità apocalittica. Peccato esserseli persi.
Mi toccherà consolarmi con i Death To All, discutibile rincarnazione della storica formazione capitanata dal divino Chuck Schuldiner. Un’operazione, pare, approvata dalla famiglia del compianto musicista, con il nobile intento di raccogliere fondi per il finanziamento della ricerca medica. Approvazione che permette alla band di adottare lo storico logo (che campeggia enorme dietro al palco) e di figurare nelle locandine dei manifesti (forse con uno zampino di malafede da parte degli organizzatori del tour) con il monicker Death (senza quel “To All” che invece ha un significato importantissimo, laddove è una bestemmia pensare ai Death senza il loro fondatore e compositore maximo).
Ma le mie perplessità non derivano da questo (anche se 25€ sono francamente troppi per quella che infine è considerabile poco più di una cover band – vero è che c’erano anche i Gorguts e prima di loro gli Exence e i Carved, cosa che permette di vedere l’evento come una sorta di mini-festival), le mie perplessità, dicevo, non si legano al senso dell’operazione, anche perché son convinto che gli ex compagni di avventura di Chuck siano legati al loro defunto amico da un profondo legame di affetto che scansa ogni sospetto in merito ad eventuali intenzioni di sfruttamento del nome Death a fini di lucro. Le mie perplessità sono legate al solo fatto che per me, come per tutti, la dimensione live acquisisce una valenza superiore (anche in termini di emozioni) se chi sta sul palco è l’artista che quella musica che sto sentendo l’ha concepita, scritta, arrangiata ed eseguita.
Ad ogni modo a scendere in campo è la formazione di “Human”, mica cazzi: l’immenso Steve DiGiorgio al basso (di sicuro il miglior bassista che la musica estrema abbia mai ospitato), Paul Masvidal e Sean Reinert, rispettivamente chitarra e batteria dei Cynic, ma che prima di rivoluzionare il mondo del death metal in direzione jazz-fusion, avevano avuto il privilegio di prendere appunti dal Maestro in persona. Maestro sostituito in questo tour dal giovane e sconosciuto Max Phelps, che oltre a farsi carico della parti di chitarra e di voce, pure assomiglia fisicamente al buon Chuck (con tanto di zazzerone era-“Leprosy”), cosa che ovviamente fa assumere all’evento contorni inquietanti. Ma al di là di questo, e della sobria presenza scenica (del resto i Death non erano i Kiss e Schuldiner non era Gene Simmons), il ragazzuolo finisce per interpretare lo scomodo ruolo con modestia ed onestà, senza strafare e (giustamente) tentare una via personale, faticando comprensibilmente durante le parti solistiche, ma difendendosi bene dietro al microfono (dimensione che, notoriamente, veniva trascurata in sede live dallo stesso Chuck, generalmente più concentrato sulle intricate partiture di chitarra).
E’ all’intro di batteria di “Flattening of Emotions” che spetta l’onore di aprire le danze, e per me è già pelle d’oca: nel mio caso assistere a questo show sarà l’occasione per ripercorrere ad occhi chiusi il senso artistico della comparsata sulla terra di quel grande musicista che è stato Chuck Schuldiner, carpirne lo spirito sotto una luce diversa, ad un’età anagrafica diversa, un affettuoso tributo a quella figura che ha calamitato la mia attenzione di imberbe metallaro nel decennio 1991 – 2001. Ed (a parte “Evil Dead”, che ebbi modo di ascoltare in un “misto” su cassettina registrato da un mio dotto amico dell’epoca) è proprio “Flattening of Emotions”, opener di “Human”, il primo brano dei Death che in vita mia ho ascoltato con cognizione di causa. Mi commuovo ad ogni passo di questo storico pezzo, al montare cerebrale delle chitarre nella fase iniziale, al prosieguo terremotante, fino al drammatico ritornello, pregno di quella lucidità, di quella disperata, fragile e brutale malinconia che erano parte fondante della visione artistica di una figura complessa (e spesso semplificata in quanto paradigmatica) quale era Chuck Schuldiner: una visione, la sua, spesso sminuita e fraintesa, in quanto resa tramite quel medium “profano” che era il death metal, comunque di sua invenzione e codificazione.
Mi rendo anche conto che i brani dei Death non si prestano al pogo più sfrenato: troppi i cambi di tempo, troppe le pause per permettere al mucchio selvaggio di dare pieno sfogo ai propri istinti. Quanto a me, rimango ad occhi chiusi a ripensare all’opera di Schuldiner e ai miei anni novanta scanditi dai suoi album.
E’ tempo di “Leprosy”, e il balzo verso il passato è brusco (anche se fra “Leprosy” e “Human” vi è un solo album di differenza), ma nonostante nel 1988 Chuck stesse scrivendo una pietra miliare del death metal classico (forse l’album di death metal per eccellenza) e solo tre anni dopo con “Human” compiesse quel salto di qualità verso lidi ipertecnici, mossa che aprirà la strada ad un nuovo filone del genere, la continuità fra i due universi è tangibile. E’ la penna di Chuck a prevalere sulle scelte stilistiche, sebbene queste scelte siano state poi adottate e sviluppate dalle generazioni successive di band dedite al metal estremo. “Left to Die”, sempre da “Leprosy”, viene riproposta come coda della title-track in una sorta di medley, formula che verrà riproposta in altre circostanze durante l’esibizione.
Max Phelps si aggira per il palco con la sua chitarra suonata appena sotto il mento, cercando anche nelle mosse di mimare la presenza scenica del mitico Chuck, personaggio schivo e non incline agli eccessi. Il vero mattatore della serata sarà dunque Steve DiGiorgio, un marcantonio di quasi due metri, capelli lunghissimi, pizzo importante, che cerca continuamente l’interazione con il pubblico, spesso inserendosi fra un brano all’altro per presentare i brani e all’occorrenza le persone che di volta in volta lo accompagneranno in questo viaggio nel tempo. Diviso fra due bassi (fra cui l’immancabile basso fretless a sei corde), che cambia continuamente a seconda del sound che richiedono i brani (un’arguzia che in verità capisce solo lui), è comunque più scenico che sostanziale per la resa finale dei pezzi: se il suo background di jazzista emerge prepotentemente e la sua alta levatura tecnica è decisamente fuori discussione, i tanti preziosismi del suo basso che avevamo apprezzato su disco si perdono nel marasma esecutivo della dimensione live. Di contro Masvidal, un nanetto al confronto, è una presenza positiva sul palco, si sposta e saltella continuamente con un sorriso che tradisce continuamente lo spirito new-age che oramai ha finito per possedere totalmente i suoi Cynic. Dietro alle pelli, l’imbolsito Sean Reinert (altro mito della gioventù) non mi convince pienamente, ma tendo a scordarmi che oramai un disco come “Human” ha più di vent’anni alle spalle, e con lui i musicisti che parteciparono alla sua realizzazione. Vero è che il batterista che lo sostituirà per un paio di pezzi durante il set apparirà decisamente più in palla (ho capita male, o era addirittura Richard Christy?).
E’ la volta di “Suicide Machine” (ovviamente i pezzi di “Human” sono quelli a prevalere, ben quattro estratti verranno suonati stasera) e poi dell’altro medley che vede fuse insieme la sottovalutata “Spiritual Healing” (gran bel pezzo, in particolare per quella sezione di tapping su cui il titolo del brano/album viene vomitato in uno degli screaming più feroci di sempre) e “Within the Mind”, altro pezzo forte di “Spiritual Healing”. C’è da dire che, sebbene tutti i pezzi dei Death siano di alto livello, la scaletta è veramente buona e pesca con estremo equilibrio da tutta la discografia della band, fatta eccezione (non si capisce come mai) di un album fondamentale come “Individual Thought Patterns” (mah, almeno “Philosopher”, con cui i veri Death amavano aprire i loro act, potevano farla). Ce ne faremo comunque una ragione: fatto sta che so tutto, conosco tutte le canzone, spesso mi ricordo i testi a memoria, e non nego che probabilmente stasera sono fra i più preparati della platea (un pubblico folto e variegato che conta almeno venti/venticinque anni/se non trenta fra il componente più giovane e quello più vecchio).
E’ tempo del meritato riposo per l’ugola di Phelps:precedute dall’inconfondibile introduzione ambient, attaccano le sontuose scale di chitarra della strumentale “Cosmic Sea”, apice della verve sperimentale dei Death. Risentirla è probabilmente uno dei momenti più emozionanti della serata, anche se dall’assolo di basso di DiGiorgio m’aspettavo di più: tirato eccessivamente per le lunghe, indulgente molto spesso su atmosfere medio-orientali, interrompe il climax sci-fi originario del pezzo, ripreso nella massiccia coda, dove death metal ferale e assoli al cardio-palma trovano un felice connubio. E’ in questi momenti che emerge non solo il Chuck Schuldiner musicista eccelso e sperimentatore, ma anche il Chuck Schuldiner visionario, alfiere primo di quella “musica schuldineriana” (non so dare altre definizioni) che smette di essere semplice death metal, ammantandosi di quel bruciante esistenzialismo di cui si permeeranno i Death della maturità, quel death metal/non-più death metal esistenziale, adulto, sofferente, cinico, slegato finalmente dalle tematiche horror dei primi album.
Il mood sperimentale vissuto in questo brano, trova un collegamento con quello successivo, la splendida “Crystal Mountain”, uno dei momenti più brillanti degli ultimi Death, anche se la band stasera, solida e compatta per quanto riguarda i brani più datati, troverà qualche difficoltà nella fedele riproposizione della complessità che animava gli ultimi parti discografici dell’impeccabile percorso artistico dell’infallibile Chuck Schuldiner. Troppe le sbavature messe in fila per un pezzo che brillava proprio per la perfezione cristallina dei suoi intrecci elettroacustici e per il dinamismo dei numerosi cambi di tempo. L’assolo poi, a mio parere uno dei migliori di Schuldiner, appare cosa vuota e scolastica, priva di quella luce interiore (quella straziante e vivida visione del mondo) che riusciva a conferirgli il suo autore.
Dunque esce Masvidal ed entra un giovinastro che, oltre ad imbracciare la seconda chitarra, si posizionerà dietro al microfono, permettendo al soldato Phelps di riprender fiato. A costui il compito di rinvigorire le fila della band (che oramai vede come solo punto di contatto con il passato l’inaffondabile Di Giorgio, considerato che nel frattempo anche Reinert aveva lasciato temporaneamente il suo strumento) per altri due pezzi della maturità: l’anthemica “Symbolic” e l’articolata “Spirit Crusher” (unica testimonianza dell’ultimo, ovviamente bellissimo e non più death metal – ma che cazzo ce ne frega – “The Sounds of Perseverance”). Se i brani godono della freschezza esecutiva dei due musicisti saliti per l’occasione sul palco, è anche vero che la sensazione di fasulla-cover-band emerge più che mai. Sì. emerge più che mai, considerato che, se i brani più antiche dei Death sono storia del death-metal e bene o male sono divenuti cliché di cui si è appropriato chiunque si è confrontato con il genere, le composizioni di fine carriera sono una musica oramai indefinibile che si adatta solo ed esclusivamente alle caratteristiche del suo autore ed interprete, costituendo quindi una sorta di “metallico cantautorato” che è difficile riproporre e rendere se non si è Chuck Schuldiner in persona.
Tira aria di fine concerto: i sodali Masvidal e Reinert salgono nuovamente sul palco ed è tempo per i classici del debutto “Scream Bloody Gore”, qui degnamente rappresentato da una doppietta micidiale: l’immancabile “Zombie Ritual” e (per me una sorpresa, piacevole ovviamente) “Baptized in Blood”, suonate una dopo l’altra con temibile spietatezza (anche se i numerosi cambi di tempo e i vari stop&go impediranno anche questa volta alle prime file di scatenarsi in un pogo sfrenato senza inibizioni che dall’inizio dell’esibizione è fortemente desiderato). Il buon Masvidal (con il suo solito sorriso e con il suo capello corto leggermente brizzolato – fra tutti è quello che conserva in minor modo quell’aspetto irriducibilmente-old -school che stasera sembra andare per la maggiore) improvvisa qualche fraseggio fusion, che non è altro che il preludio a “Lake of Comprehension”, altro pezzo da novanta contenuto in quel capolavoro senza tempo che è “Human”, reso in maniera travolgente da una band che oramai non ha più energie da centellinare e può dare finalmente tutto in vista del gran finale.
Era infatti l’ultimo pezzo in scaletta, ma prima che Steve, Paul & Sean si abbandonino ai saluti finali fra i calorosi applausi del pubblico festante, c’è ancora spazio per l’immancabile bis, che senza sorprese viene incarnato dalla storica “Pull the Plug”, classico dei classici, stasera resuscitato sotto il segno della violenza e della ferocia più assolute (qui si che la mischia si anima).
Che dire, l’aspetto che più mi ha colpito è come la musica dei Death suonasse così antica e moderna al tempo stesso. Certo, negli ultimi quindici anni il metal è cambiato, ma probabilmente è stato solo contaminato, si è mescolato ad altri generi: stilisticamente non si è evoluto. Schuldiner era invece uno che “costruiva” musica, effettuava una ricerca (ed a lui infatti va la paternità di molti riff e soluzioni armoniche poi divenute l’abc del death-metal), affinava il proprio stile, studiava il proprio strumento e migliorava tecnicamente di album in album, ma soprattutto riusciva a padroneggiare sempre meglio la sua arte al fine di meglio esprimere quello che aveva dentro. Se questo non vuol dire essere artisti….
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