OSCILLAZIONI, VENTO VIBRATO E SUONO IN CONSEGUENTE SCIA, MA AMEBA DI SE STESSO E RESO IMMAGINE Sono.
In un gioco di specchi che non ci sono. In un gioco di spicchi che ci sono. La dimostrazione che ovunque possiamo specchiarci. Basta avere il coraggio di guardare la nostra proiezione gettata dove il cielo è proibito. Ma dove mano e piede, dati in pasto alla luce artificiale, possono attirare l’attenzione fino a diventare personaggi vivi e tranquillamente deragliare a protagonisti di un linguaggio eccessivo fino a diventare forzato, quasi televisivo, dove conta solo l’ eliminazione fisica, per ”essere stato nominato” o per cambio di vento che gira le spalle alla propria bandiera, politica o di raccomandazione che sia.
Uno sgabello può parlare. O semplicemente cigolare. Così come permettere a chi ci sale sopra di trasformarlo nell’oggetto più perfetto (o meno imperfetto) della scena. O, più semplicemente ancora, ascoltare il suo cigolio parlerebbe di noi, del nostro peso, della nostra grazia, della nostra armonia interna e perciò, è inevitabile, esterna. (Stavo per scrivere ”inevitabilmente”, ma sarebbe stato assolutamente troppo pesante scrivere un’altra ripetizione e che finiva in ”mente”). Sono stato al lago di Garda, ieri. E ho sbagliato in un particolare, piccolo ma importantissimo: le scarpe. Ho lasciato a casa quelle di cuoio, proprio quelle che mentre imbocco l’arco di Cisano allo stesso ritmo di camminata di quando sono sceso dall’auto, venti inspirazioni (e cinque ombre mangiate dal sole) prima, mi fanno da metronomo per i pensieri rivestiti di respiro che porto al guinzaglio trascinandoli oltre l’orizzonte, finchè il controsoffitto del cielo sta lì, a due passi, così irraggiungibile nella sua pienezza fluida.
Quanti modi ci sono di scendere una scala? Quanti modi ci sono per poter fare della stessa scala una sorta di arto interattivo? Di pezzo di corpo preso a prestito per aiutare il corpo stesso a vedere il mondo da un punto diverso diverso da prima ?
Poi va a finire che un gioco nuovo diventi ripetitivo e perda la sua magia se fatto tante volte in troppo poco tempo, come per esempio la scoperta del trapano come generatore di rumore fertile per creare un suono. Poi va a finire che basta inquadrare a strappi un occhio che buca i capelli e una nuca di trequarti posteriore per capire dove sta la vita e dove sta la non-vita (un vestitino orrendo eccessivo anche nei colori, ma che, con il suo bel cartoncino ancora da strappare, dà l’ impressione di essere vivo e di ridare un po’ di diversa vitalità a chi lo indossa). Diciamo che a Dueville c’è un gruppo di persone che per 5 euri, tanto per rendere in parole di uso comune linguaggi non comuni, possono aver dato l’impressione, a molti dei pochi spettatori presenti, di aver creato una comunicazione sonora/visiva nuova.
Per chi conosce AGF, Keith Fullerton Whitman, Vladislav Delay, Maurizio Bianchi e altri/e no, ma posti come Dueville, un vuoto a forma di chiesa col nulla intorno, non hanno bisogno che di questo. Del resto questa è terra di artisticamente alieni come Gi Gasparin. E non è una novità che più i posti sono peggiori, più spuntano dalla roccia musica e arte inspiegate. Ma non inspiegabili.
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