Si dice che il cinema lo si impara guardando film brutti, non i capolavori. Mudbound, distribuito da Netflix in Italia e accolto in trionfo dalla critica americana al Sundance Film Festival, è il perfetto campo di prova per imparare il primo e più importante comandamento del racconto cinematografico, quel “show, don't tell” insegnato anche all’ultimo workshop di sceneggiatura nell’angolo più sperduto di Los Angeles.

Anni '40, profondo Mississippi. Due famiglie, una nera e una bianca, si ritrovano a condividere la vita su un pezzo di terra. I primi ne sono proprietari, i secondi affittuari nella speranza di averne uno tutto loro. Nel mezzo i figli maggiori di entrambe le famiglie tornano dalla guerra, e la tragedia condivisa fa scattare un’amicizia profonda.

Razzismo e Sundance, una mitragliata sufficiente a far alzare più di un sopracciglio. L'anno scorso questa fantastica accoppiata ci aveva regalato "The Birth of a Nation", accolto in anticipo come trionfatore agli Oscar e sparito nel dimenticatoio tra accuse di stupro al regista Nate Parker e l’effettiva constatazione di un prodotto tuttalpiù mediocre. Con Mudbound era lecito aspettarsi di più, la storia è tratta dal romanzo Fiori nel fango di Hillary Jordan e ammicca ai grandi drammi familiari del Southern Gothic nel solco di William Faulkner e Eudora Welty. Proprio qui sta il problema, una totale incapacità di comprendere il dovuto lavoro di adattamento richiesto nel passaggio dalla carta al cinema. Oltre due ore di dramma scandito da ben sei voci narranti, idea apprezzabile nelle intenzioni di una vicenda dai molteplici punti di vista ma che si trasforma in una nenia continua di voci fuoricampo a raccontarci dettagli, caratteri, emozioni e difetti dei personaggi, quando nel cinema, quello vero, lo si narra con azioni, gesti e movimenti in camera, attimi di pochi secondi che bastano quanto un minuto di sproloquio.

Velo pietoso sulle poche scene di guerra, intrise di vorrei ma non posso televisivo tanto è ristretto il budget e piccolo l’occhio di Dee Rees. Di nuovo, una scrittura più consapevole avrebbe optato per una rinuncia completa della rappresentazione visiva del conflitto, scegliendo piuttosto di affidarsi, stavolta si, alla potenza evocativa del raccontato, del detto ma non visto, sottigliezze che la sceneggiatrice Virgin Williams è ben lontana dal considerare, attenta com'è ad aggiungere conflitti su conflitti con nonchalance, tanto che al momento dello sbroglio, quando il dramma si dovrebbe consumare e la tragedia esplodere, tutto succede con una sciatteria e mancanza di cura da uccidere ogni affiato di pathos. Tradimenti che si consumano senza un briciolo di passione e senza aver mai visto del concreto desiderio, regolamenti familiari giustificati da mezza battuta di dialogo, e via così lungo tutto il film, succedono cose perché devono succedere, si va a lavorare letteralmente nella merda perché "ho sempre voluto una fattoria", l'intera congrega paesana del Ku Klux Klan accorre imprivvisamente in tuo aiuto senza che ti si veda mai costruire un rapporto con la comunità, fino al culmine emozionale costruito a tavolino nel finale, sfiorando il peggiore sentimentalismo da soap opera e un accumulo di sfighe che regala più di qualche sghignazzo inappropriato.

Rimane da segnalare l’impiego di una dignitosissima fotografia, dove la grana grossa della pellicola sarebbe stata d'obbligo la talentuosa Rachel Morrison se la cava magnificamente con le ristrettezze economiche del digitale e, tra una voce fuori campo e l’altra, qualche breve attimo di poesia alla Terrence Malick. Le performance attoriali vanno dal cartonato al dignitoso, e per dignitoso intendo Mary J. Blige, forte dell’effetto “Jennifer Hudson”, consistente nella totale mancanza di oggettività critica americana quando una cantante afroamericana si presta al cinema per qualche dramma venato da razzismo. C’è un’eccezione, ed è quella vecchia volpe di un caratterista di nome Jonathan Banks. Consegnatoli un ingrato personaggio monodimensionale, si mangia il film ogni volta che apre bocca. Pochi minuti dove emerge brevemente l’autentico orrore della segregazione razziale nel sud latitante per tutto il film. Parole biascicate intrise di violenza e disprezzo assieme a un’ignoranza e un odio che corrodono l’andatura della sua camminata come fossero veleno nelle ossa. Per quei brevi istanti sembra davvero il Mississippi delle leggi Jim Crow. Peccato si limiti tutto alla prova di un consumato professionista.

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