[Contiene anticipazioni di trama]

Denis Villeneuve non ha ancora sfondato in Italia: il precedente Enemy non era nemmeno stato distribuito. Ma il regista canadese è uno dei nomi in grande ascesa degli ultimi anni (girerà il seguito di Blade Runner) e la vetrina di Cannes deve aver aiutato i nostri distributori a decidersi in senso positivo. Per altro, al festival transalpino è stato accolto in modo tiepido, ma sinceramente fatico a capire come si possa criticare un film di questa qualità.

La trama in sé non è certamente nulla di nuovo, ma la realizzazione di Villeneuve dona al plot una serie notevolissima di pregi. Ma voglio precisare che anche il copione è tutt'altro che scadente. La scrittura dei personaggi è davvero matura, chirurgica nel tratteggiare caratteristiche senza necessariamente portarle alle estreme conseguenze: il redivivo Benicio Del Toro è un vendicatore nero, ma uccide sono se necessario al suo piano, è glaciale, ma non gratuito. Lo stesso Brolin, simbolo del modus operandi cinico e quasi strafottente della CIA, è ritratto con equilibrio, senza forzare la mano. In generale penso che il pregio maggiore di Sicario a livello contenutistico sia la scelta di non dare risposte: viene esposto un conflitto, uno scontro tra forme di violenza opposte eppure uguali, ma non si vuole arrivare a dire che la CIA faccia schifo, tutt'altro. L'ambizione è quella di oggettivare un paradosso lacerante dell'agire umano: per fermare chi compie del male bisogna a propria volta compiere quello stesso identico male. In questo scenario truculento, gli obbiettivi finali delle controparti sono come eclissati: ci si focalizza solamente sul modo.

I personaggi sono ben scritti e interpretati anche meglio: Emily Blunt è il volto giusto per film di questo genere e l'auspicio è che possa farne ancora molti. Sa essere espressiva pure nell'immobilismo raggelato della sua Kate.

Ma ciò che fa schizzare verso l'alto il valore del film è tutto il comparto estetico, che nella sua austerità riesce ad inebriare lo spettatore, lo narcotizza col suo gusto nero, crepuscolare. Villeneuve non sbaglia niente: le sue inquadrature sembrano guardare alle cose con occhi nuovi, segnalano ogni volta la componente fisica e materiale della sequenza. La fruizione automatica e distratta è così scongiurata: si riscoprono le cose.

C'è un lavoro splendido sulla fotografia (Roger Deakins) e i cromatismi: facile citare la sequenza di irruzione nel tunnel, ma quella di Del Toro in macchina col poliziotto corrotto è anche meglio. L'oscurità domina quasi incontrastata.

L'estetica di Villeneuve non ha bisogno di mostrare sangue per rendere la violenza: molti omicidi non sono inquadrati, ma l'orrore emerge fortissimo da altri elementi: le espressioni di Emily Blunt, i colori, ma anche le musiche spaventose e tonanti di Jóhann Jóhannsson che ci introducono negli scenari con profondo senso di inquietudine. Villeneuve riesce a connotare sequenze che sarebbero altrimenti insignificanti: la corsa in auto al confine tra Messico e Stati Uniti non presenta per lunghi tratti elementi di violenza, ma è resa quasi terrificante dall'occhio del regista e dal suo continuo sondare le emozioni della protagonista. Questo cinema trasuda significati, ma non li sbandiera in modo grossolano: il poliziotto corrotto ci viene introdotto fin dalle prime sequenze, ma quando Del Toro lo fredda non c'è spazio per sottolineature enfatiche, basta una brevissima inquadratura del corpo esanime sulla strada.

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