La guerra a colori è un titolo brutale, ma che spiega bene cosa mostra questo documentario. Perché sta nella nitidezza delle immagini, nel dettaglio visivo accurato, tutta (o quasi) la forza espressiva di questi dieci terrificanti episodi. Scene che fanno capire davvero cosa è stato, anche se è la centesima volta che senti ripetere che nell'assedio di Stalingrado morirono un milione di russi, tra cui molte donne. L'inverno, i piedi ghiacciati e le scarpe rotte. Lo sai, ma ora lo vedi. E vedendolo così bene, con questa definizione, è come se lo sapessi meglio. È come se lo capissi davvero solo ora.

Comprendi che tra la dichiarazione di guerra e la morte di milioni di persone c'è un travaglio che non è soltanto lungo sei anni, è pure arzigogolato, complesso, ricco di questioni banalmente logistiche o finemente strategiche. Politiche. Vedi come la guerra si dipani attraverso manovre ben ragionate e altre del tutto avventate, e i soldati rientrino semplicemente tra i vari costi, come la benzina, i proiettili, i viveri. Vedi la pena e lo sconvolgimento del morire in massa.

Non è un documentario che apre gli occhi sui grandi temi complessivi del conflitto, non getta una luce differente su come si sia arrivati a una simile brutalità. Per questi aspetti consiglio caldamente i podcast o i video di Alessandro Barbero. Qui invece possiamo toccare con mano (inorridita) il funzionamento della guerra, la sua organizzazione minuta e a volte beffarda, dannatamente concreta. Ammazzare è uno sporco lavoro, faticoso, stancante. Tant'è che i soldati tedeschi per la loro blitzkrieg in Francia praticamente si facevano di metanfetamine, per correre più forte, anche di notte. Senti proprio la cacofonia dei cannoni che non conoscono pace, vedi i carrelli giganteschi sparare proiettili rovinosi e rinculare con violenza. E vedi l'uomo che si arrabatta con grande cura per costruire cumuli di morte.

Ci sono spiegazioni di alcuni passaggi che non avevo bene il mente, ma so che non dimenticherò più. Come i bombardieri americani che nella battaglia delle Midway trovarono le navi giapponesi per pura fortuna, notando un bagliore strano all'orizzonte, mentre si stavano perdendo nell'oceano indistinto. Alcune immagini (mentali magari, solo narrate) rinnovano l'orrore anche oltre quello risaputo dei lager. Perché il rischio è che l'orrore diventi istituzionale, riassorbito.

Durante il bombardamento di Dresda, mille persone che trovarono rifugio nel bunker furono poi trovate liquefatte il giorno dopo, una melma marrone ovunque, per via delle altissime temperature raggiunte con il parossismo di bombe al piano di sopra. Grandi ordigni che scoperchiavano i palazzi e poi altri, incendiari, che bruciavano tutto al loro interno. Il legno, le opere d'arte e la carne umana.

Io soffro pensando a quegli esseri umani che iniziavano a sciogliersi per il calore, tutti ammassati in un rifugio antiaereo. Non riesco a figurarmi nella mente il momento in cui quelle persone diventavano acqua melmosa.

È impressionante la quantità di immagini registrate, la mancanza di pudore nel riprendere teschi e corpi galleggianti, ed è beffardo che le meno presenti siano quelle legate al bombardamento di Hiroshima, che l'America fece sparire. Si incontrano personaggi tragici come il generale Paulus, che circondato dai russi a Stalingrado subì le scelte di Hitler di lasciare al massacro circa 300 mila tedeschi. Il motto: mai arrendersi. Piuttosto morire di fame, di freddo. Alla fine ne furono catturati circa 100 mila, ma ne tornarono a casa solo 5 mila.

Uno dei tanti suicidi arroganti di Hitler, come l'offensiva delle Ardenne, quando ormai spacciato mandò altri tedeschi a morte nel disperato tentativo di riprendere il porto di Anversa, sfruttando alcuni giorni di maltempo in cui l'aviazione alleata non poteva bombardare. Il giorno dello sbarco in Normandia si svegliò alle 9, due ore dopo l'inizio delle operazioni, perché nessuno osava disturbarlo. Rommel era a festeggiare il compleanno della moglie. La distanza dei gerarchi rispetto alla fredda morte di milioni mi ha lasciato un profondo senso di tristezza e di fallimento dell'umanità. Se le masse sono così prone da servire gli ordini folli di un tossicodipendente (si faceva di cocaina ed eroina, e si ringalluzziva) allora l'umanità ha fallito. Credo che qui la storia sia sostanzialmente finita. Nel 1945 abbiamo accarezzato le fiamme dell'inferno. Peccato che molti di quei gerarchi siano stati sostanzialmente graziati negli anni successivi, perché il nemico sovietico era troppo cogente. Come dire, il mondo successivo a quella catabasi non è un altro mondo, è lo stesso, imbellettato.

Se la ferocia del dittatore tedesco appare oltre ogni misura del possibile, insensibile alla tragedia collettiva mentre si sollazza nei suoi salotti sulle Alpi, al Nido dell'Acqua, o nel bunker finale a Berlino dove rifiuta ogni resa, quella degli Alleati appare problematica ma non meno grave negli effetti. La differenza nella guerra tutto sommato è questa, che da una parte la parola del capo nazista è sacra (e spesso suicida) mentre quella delle democrazie è dibattuta, frutto di scelte sofferte e problematiche. Ma nella dimensione bestiale del conflitto anche le scelte delle democrazie si esprimono in esiti inumani come appunto Dresda, Hiroshima e altri bombardamenti assurdi come quello di Tokyo.

Il documentario nelle sue dimensioni ampie (dieci episodi di 50 minuti) dice tante cose senza un preciso filo conduttore, ma se non altro cerca di mantenere un punto di vista oggettivo interrogando specialisti di diverse nazionalità e studiosi degli specifici eventi storici, per dare dettagli e problematicità a tutti gli episodi. In alcuni casi ci sono anche testimonianze in prima persona, come nel caso del D Day o della bomba atomica.

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