Mentre la maggior parte dei devoti è perso nell'Hyperdub, io che di lavorare non ne parlo neppure, voglio iniziare un viaggio che porterà passo passo nella voragine delle post-music giapponesi. Succede sul posto di lavoro dove, illuminato dall'indefinito sol della padania, che niente ha da invidiare al cerchio nucleare della Tokio programmata da mr. Eye, condivido in cuffia il rifiiuto delle logiche standard, sfogo la smania per l'elettronica da ballo, intoietto il piacere egotista dello sballo da droghe e mi commuovo dinnanzi alla dissimulata, apparentemente tranquilla isteria a mandorla.

I Boredoms nella persona del "Comandante", in vacanza a Disneyworld destinazione-rave, programmano un carnevale elettrotechnico con trapani e battiti inesportabili. Un affare che s'ingrossa fin da subito (i 3.31 di "Beats from Banaspati", follia aeroportuale in 4/4 lento-veloce, filamenti di metallo memoria dei Ruins di Reversible Sabbath e pillole di ritmica da manuale di psichiatria) e che da subito comunica l'arrendevole sensazione di non poter resistere fermi o seri davanti a  jap-(re)visioni del drum'n'bass, ecciatate campionature egualitarie di bonghi, rifferama metaldance, tablas, risate di bambini, lingue urdu, sputi Michael Rother in picchiata su hang drum, scarti Roland, xilofoni e pianoforti di jazz colto, di volta in volta inseriti, come supposte di PCP in pezzi house privi di criterio, scheletri Jungle Bass "Saluti da Pattaya", inferni progressivi, stop & go industriali e numeri etnic-pop di lucida maestria*.

Il difetto, piuttosto, se proprio si vuole, ne è il pregio : una visione "totalitaria" della musica, che fa diventare "naturali" a forza, ed incendiarie per forza, mescole impensabili, come questo concept di 26 pezzi che con infinito scazzo goabong e beat a cascata in cascata di beat ("Malm") si va a fare una jam per bongos dalla percussività allucinante ("Soul-E Stomp") e finisce per perdersi nel vuoto pneumatico di flanger ad alta assorbenza nel quale navigano motori navali in sfibro da breakbeat per albe d'acciaio ("Emplia"), che rapidamente divagano in acappella house jawdropping per voce di geisha ("Burrega Theme") convogliati in cianotici tunnel d'industrial indo-cinese con campioni di qualche misterioso cordofono orientale da cerimonia, organi  jungle di lodevole bruttezza e ottusità orientale (L'incaponirsi metronomico di "Weddel Seals", il devasto al rap kraut-karaoke di "Dis Poem '99", partenza tedescoide, pit stop dub lato pianoforte (Takagi Masakatsu in lacrime costretto a mangiarsi gli spartiti), per poi chiudere in carogna synthtrance-progressiva in un alba alle Baleari di plastica ricostruite ad Osaka).

Nei momenti in cui però briciole di saggezza cascano dal cappello di Pippo, è la Yellow Magic Orchestra che lascia consultare ad Eye il libromastro dei segreti;  l'allievo che ricompensa i maestri con puro tea di saggezza Kraftwerk-goes-to-Japan ("It sounds Like Liquid Skies" è vocoder-pop da vernissaggio in piscina olimpionica), poi si crogiola nei 6 minuti di percussionismo metallico per sveglie Casio e australian Jungle con tanto di dijeridoo tossico che ha perso la strada di casa ("Sanganoobo"), e sgasa motocicli techno che farebbero arrossire (d'invidia) Tom Rowlands ("Royal Mosambique"). 

Come un maestro-san Eye piazza nascoste le sirene della perfezione: il minuto scarso di "Visions", pezzo emblema, che mette tutti in riga con un circo progressive in sordina che nel giro di secondi sale più su del Dio meccanico ed esplode in un solo per kitarrismi "Kommune 2" con il piccolo coro dell'antoniano japanese che fa la melodia ("The Last Sheet").
Puro spettacolo e segnalazione separata, a beneficio di chi non avesse già smesso di leggere, (figurarsi sentendo il disco...) la teka di tabla cantata in hi-speed su cinghie hardcore ("Soothe Your Soul") ed il gamelan recitato in una lingua misteriosa mandato a merda nella samba ad alta tensione per inqualificabili dancehall ("Let's go To Mars").

Un disco gigante, presuntuoso, onanista e massimalista all'unisono, impossibile sulla pelle, nazista nella stupidità dei temi, ottuso nella logica "freedance", anarcoide ed intransigente nel citare e shakerare etnico e elettronico, krauto e profano, immenso nel spernacchiare l'elettronica "composta" d'europa e premonitore nel caos logico con cui è architettata questa plausibile ipotesi della musica del futuro. Magari!.
Indispensabile ad ogni costo.

 

*(Il tutto, che non è affatto normale, scorre con serenità, come se fosse standard entrare in un negozio e chiedere Dj Pica Pica Pica senza che qualcuno avverta immediatamente il centro diurno e ci riporti in vinculis a suggere il brodino tagliato col Dalmadorm).

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