Anche batterista, ma soprattutto intenso cantante ed emozionante paroliere, Donald Henley da Gilmer (meno di cinquemila anime, in un angolo di Texas) non ha mai inteso approfondire a sufficienza la sua perizia su strumenti tradizionalmente atti alla composizione (pianoforte, chitarra...) e così ha avuto sempre bisogno di una "spalla", di qualcuno che gli sottoponesse un bel giro di chitarra, ovvero un grumo di accordi pianistici, sui quali poi imbastire una bella melodia vocale delle sue ed un altrettanto efficace testo d'amore, oppure di rabbia, magari di denuncia sociale, o invece di malinconica rimembranza.

Ai tempi d'oro degli Eagles suo perfetto partner era Glenn Frey: vulcanico, istintivo, superficiale, veloce, arrogante, Glenn dava l'idea grezza, la direzione, lo spunto; la cosa passava poi al pignolo e riflessivo Henley il quale completava, limava, migliorava, ordinava, sceglieva la soluzione ottimale. L'intesa ha funzionato, come si sa, alla grandissima per un certo tempo, rendendoli multimiliardari a vita.

Nel 1984, anno di uscita di questo lavoro, Don e Glenn però neanche si parlano più e la nuova, indispensabile spalla del batterista è diventato Danny Kortchmar, chitarrista e produttore, fin lì collaboratore di lungo corso prima di James Taylor e poi di Jackson Browne, bravo ma senza possibilità, o fortuna, di acquistare una vasta fama personale (anche se nel suo curriculum di produttore entrerà, in seguito, gente come Bob Dylan, Billy Joel, Neil Young...).

La grande canzone trainante del disco, il crack come dicono negli USA, è però un regalo del chitarrista degli Heartbreakers di Tom Petty, Mike Campbell. Henley e Kortchmar, in ogni caso,  aggiungono a "The Boys of Summer" moltissimo del loro, ossia arrangiamento, esecuzione e canto da stato di grazia: un rotolante, incalzante ritmo di Linn Drum (batteria elettronica al tempo in voga), viene incrociato dall'ossessivo arpeggio di un sintetizzatore. Intanto il sontuoso lavoro della chitarra solista che rifinisce, singhiozza e contrappunta, liberando infine un grande assolo conclusivo, si alterna all'evocativo cantato che, partendo dalla rimembranza di una squadra di baseball degli anni cinquanta, affronta il tema più generale del passaggio dalla giovinezza all'età matura e consapevole.

Il timbro di voce di Henley si rende immediatamente riconoscibile per via di una particolarissima, rauca tensione, specchio del suo carattere guardingo, insoddisfatto ed esigente: indubbiamente è una delle grandi voci d'America anche se il personaggio, proprio per il suo carattere difficile e tutt'altro che affabile e rilassato, non ispira istintiva simpatia, esponendosi anzi a veri e propri pregiudizi (specie in Italia). Personalmente è fra i miei cantanti preferiti in assoluto... invecchiando poi non ha fatto altro che migliorare in tecnica ed espressività, cosa prevedibile dato il soggetto, vera antitesi a qualsiasi possibile autoindulgenza... ma il bello è che, mano a mano che passavano gli anni, Don ha inteso di indirizzare sempre più proficuamente la sua perenne, intrinseca, proverbiale incazzatura verso cose veramente importanti, e cioè i vari abusi sociali e ambientali che infestano il mondo intono a lui (e intorno a noi tutti), devolvendo una vera fortuna economica, e tantissimo del suo tempo, a cause umanitarie e di denuncia politica, da autentico progressista e non mero parolaio come in uso dalle nostre parti. Fra l'altro, dopo i tanti anni disordinati ed edonistici a Los Angeles, gliel'ha data su da tempo con la competitività feroce, l'invidia ed i relativi stress, tornando a vivere al suo paesello texano, cercando di far crescere i propri figli su valori concreti e solidi: massimo rispetto.

All'epoca di quest'album siamo comunque ancora in piena fase californiana: la seconda traccia notevole del disco è "Sunset Grill " (dedicata a un locale di Hollywood) ed è caratterizzata da drammatiche sciabordate di sintetizzatore, messe a punto dal grande collega Randy Newman, nonché dal caratteristico, superbo glissato del basso elettrico senza tasti di Pino Palladino. Ai cori, per l'occasione, un'insospettabile Patty Smith.

Curioso, ma oltremodo tipico, il destino di "All She Wants To Do Is Dance": le liriche, contenenti una ferocissima critica alla superficialità ed alla piccineria di tanta gente priva di coscienza sociale, hanno finito per rimanere in secondo piano rispetto all'accattivante ritmo discotecaro allestitovi intorno. E' andata a finire che quegli stessi personaggi oggetto della rabbia di Henley hanno finito per ballarci sopra, a lungo e con soddisfazione, su questa canzone che animosamente stava ad accusarli e rimproverarli.

Secondo di soli quattro album pubblicati a suo nome dal musicista in trent'anni ("preferisco far uscire un disco ogni dieci anni, ma con tutte buone canzoni, che uno ogni due-tre anni con solo un paio di cose notevoli ed il resto a riempire...") "Building The Perfect Beast" mancava ancora alla notevole collezione di recensioni di questo sito, e ciò non era corretto: evviva Don Henley dunque.

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