Ovvero: de bollitura bennatica. Questa non è né vuol essere tanto una recensione del pezzo in questione. La retorica, l’inutilità, la profonda banalità della canzone sono sotto gli occhi di tutti. Che Edo, poi, il nostro vecchio Edo, sia costretto a tingersi i capelli ed accompagnarsi a gente senz’anima né arte, è cosa troppo triste da esser commentata, seppur in forma di recensione.
Questa vuol essere una dichiarazione d’amore a un meraviglioso artista, a un padre del cantautorato italiano. A un uomo che ha saputo, con pochissimi altri, innalzare la scuola cantauorale del meridione ai livelli della scuola genovese, col valore aggiunto della grande tradizione napoletana. Il tutto, come nel miglior Pino Daniele, altro dead man walking, infarcito del più vero e profondo blues.
Quest’uomo, poi, e se siete giovani e non lo conoscete bene non potete saperlo, era anche splendidamente autoironico. Profondo, colto e autoironico.
Fece, a metà dei settanta, una manciata di dischi splendidi. Letterariamente perfetti, come dicevo profondamente autoironici e assolutamente profondi, sia quando si rideva che quando si protestava, e musicalmente del tutto innovativi. Certo: c’era la lezione di Dylan, l’evidente non indifferenza per Battisti, la perfetta conoscenza del Delta, di Chicago, ecc… Insomma, c’erano le fonti, come sempre. Ma, come per tutti i grandi artisti, che poi sono grandi cuochi, gli ingredienti erano mischiati con assoluta genialità, con forza e capacità. Senza melodrammi, senza retorica, senza baggianate occhieggianti, ecc…
Circondava Edo, poi, un aura di coerenza e incorruttibilità assoluta. Ricordo un mio amico, nel tour di “E’ arrivato un bastimento” (l’ultimo bel disco e in generale uno degli ultimi ascoltabili) che alla fine del concerto l’avvicinò ed ebbe il becco di dirgli che, a suo parere, ormai s’era imborghesito. Qualunque altro cantante o l’avrebbe mandato a cagare o avrebbe fatto finta di non sentire. Lui no: ci rimase male, chiese perché e ne parlarono per un po’.
Poi, verso metà degli ottanta e dopo un disco sicuramente accettabile nel suo essere, in qualche modo, sperimentale, come “Kaiwanna”, ecco la scelta. Quella maledettissima scelta che hanno avuto avanti a sé tutti i cantautori della grande scuola: o tenersi i propri ascoltatori, crescendo con loro e magari sperimentando (come fece il mai troppo compianto Battisti, ma come han fatto e fanno in maniera meno rischiosa anche Conte, Fossati, Battiato e pochissimi altri) oppure ochieggiare ai giovani credendoli gli unici artefici di vendite e classifiche, in un mondo sempre più spietatamente dominato del mercato. Ed ecco allora i capelli tinti, i vivalamamma, le okitalia, e sempre più giù, fino all’ultima produzione di collaborazioni azzardate e quasi sempre fallaci con debolissimi giovinastri chitarremuniti e a quest’ultimo singolo. Quest’ultima canzone per l’estate, banalotta e spiaggifera, proprio lui che qualche anno fa, al concerto tributo per De Andrè, cantò proprio “La canzone per l’estate” (non capendola…?…boh…).
La scelta del partner, poi, chiarifica il progetto. Se sono un regista come Antonioni, e mi rendo conto di non esser più fortissimo, ho tre scelte: o smetto (scelta che quasi mai nessuno percorre, spesso sbagliando) o mi affianco Wenders, perché ho un nome e una tradizione da difendere, e soprattutto perché mi piace il cinema, o mi affianco Vanzina, perché voglio vendere anch’io a Natale.
Bene: Antonioni ha scelto Wenders. Bennato ha scelto Vanzina/Britti (anche se un po’ mi rincresce per l’accostamento con Vanzina, che qualcosa di buono l’ha pure fatto, và…), affiancandosi un belloccio stratecnico delle sei corde e del tutto privo dell’anima, con la capacità compositiva di Cristina D’Avena quando non è in forma.
Peccato, Edo: eri un grandissimo. A metà della tua discesa ti sei ricordato di noi e di te stesso, regalandoci il tuo alter ego Sarnataro. Illudendoci.
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