L'arte per me è fuga. Una lunga corsa mentale in un mondo onirico che mischia il reale con la percezione dello stesso generata in me dall'esperienza sensoriale stessa: un quadro, un romanzo, una poesia, tutto concorre al viaggio. Con la musica, specialmente con il Jazz, si fa tutto più rarefatto e sottile, le immagini scorrono veloci come brevi flash. Rimanendo però scolpite nella mente e nel cuore in un modo diverso, se volete più intimo e privato. Secondo me ogni persona ha un lato nascosto, che non è per forza oscura e malvagio, anzi spesso è qualcosa di profondo e forse perfino dolcemente malinconico. Un rifugio segreto, una specie di santuario dove nascondersi e sentirsi finalmente a casa. Ma sto divagando troppo, perciò andiamo al sodo e precisamente al disco di cui oggi vorrei parlarvi, ossia “Live In Japan” del pianista romano Enrico Pieranunzi, accompagnato per l'occasione da Marc Johnson al basso e da Joey Baron alla batteria. Chi ha letto qualche altra mia recensione sul Jazz saprà che ho un certo debole per le formazioni a tre, specialmente il classico trittico piano-bass-drum. Un amore che credo risieda proprio in quel senso di intimità di cui dicevo poc'anzi. C'è qualcosa di stranamente raccolto in questa tipologia di collettivi musicali, un'alchimia che non smette mai di affascinarmi e farmi innamorare di ogni nota, accento, accordo o melodia. Pieranunzi poi è un artista di un'eleganza e raffinatezza che al giorno d'oggi sono davvero rari da trovare, caratteristiche che permeano ogni composizione che ci viene presentata in questo doppio album registrato in Giappone nell'estate del 2004 e che ci mostra un set di brani dinamici, corposi e ricchi di sfaccettature. Siamo davanti a quasi due ore di musica che sono però capaci di irretire l'ascoltatore con una forza tale da comprimere il tempo e renderlo fugace come se si cercasse di raccogliere l'acqua con le mani sperando che essa non scivoli via tra le dita. Per parlare di un lavoro come questo mi viene in aiuto anche lo splendido artwork con cui la CamJazz ha pensato di presentarlo al pubblico: un paio di ideogrammi su una banda verticale rossa con a lato i nomi dei musicisti e in basso il titolo del lavoro, il tutto incorniciato in un quadro dai bordi di un grigio tenue a sua volta immerso in uno sfondo bianco. Semplice, lineare ed elegante, un ottimo biglietto da visita che ben preannuncia ciò che andremo ad ascoltare. Il trio si muove su improvvisazione in cui leader suona divertendosi (particolare è la splendida “Impronippo”) e regalandoci momenti di tecnica, melodia e fantasia che sicuramente avranno reso felici i fortunati che hanno assistito a questa grande esibizione. Come si sa i giapponesi non sono molto partecipi durante le esibizioni dal vivo, preferendo la compostezza alla fisicità tipica del pubblico occidentale (ovviamente è un concerto jazz quindi non è che uno si aspetta un pogo selvaggio, questo credo sia ovvio) eppure durante tutto l'ascolto il pubblico in un certo qual modo si sente. C'è come una piacevole tensione di sottofondo che rende l'atmosfera ancora più frizzante e dinamica, una vitalità quasi palpabile che ben si lega ad un interplay tra i musicisti fluido e senza momenti morti. Se chiudo gli occhi posso immaginarmeli mentre si fanno dei cenni e lasciano andare fiumi di note fino all'applauso che segna la chiusura di un pezzo. Un'eleganza quasi eterea che per me è una boccata d'aria fresca, un viaggio che per quelle due ore scarse mi porta davvero in Giappone. In alcuni frangenti le corde del basso di Marc Johnson, quando vengono pizzicate dalle dita del musicista, mi ricordano canne di bambù piegate dal vento, un suono ancestrale che profuma più di suggestione che di realtà, una fantasia scandita dalle bacchette di un Joey Baron così fluido da crearti intorno un'impalcatura fatta di passaggi e giochi di piatti perfettamente bilanciata con il lavoro dei suoi compagnia. Magari sarà follia ma alla fine questa è per me l'esperienza artistica, un qualcosa capace di trasformare il grigio in colori vivi e brillanti, sentire l'intelligenza guizzare sotto le note di “Mio caro dottor Grasler” o di “Tokyo Reflections” mi ricorda che al mondo c'è molto altro rispetto a quello che ho davanti tutti i giorni. Detto questo, per concludere, mi viene naturale ringraziare questi tre splendidi musicisti per il viaggio che mi regalano ogni volta che metto su il loro album. La musica è uno scudo, una superba protezione contro il male e se anche voi, ogni tanto, avete bisogno di un posticino dove rifugiarvi non posso che consigliarvi un piccolo locale dove ogni volta che volete suonano tre grandissimi musicisti, certo si trova in Oriente ma è lo stesso facilmente raggiungibile... Fidatevi ne vale davvero la pena.

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