C'è questa foto stretta tra vetro e cornice. Una ragazza in bikini osserva il mare mentre tu affoghi nel calore della tua camera. La carta da parati si stacca e tu t'arrampichi sul letto per poi tornare a piegarti sulla tua macchina da scrivere. Gli serve lo "stile alla Barton Fink" per parlare d'un Wrestler, d'un gigante in mutandoni comunque capace d'amare. La scritta Capital, dissolvenza e ora spara: che deve fare questo bestione? Ci vuole un cattivo, una bambina, un amore. E' questo che fa vendere, non il tuo interessamento per l'uomo comune.
Ti immergi nel caldo di Los Angels e scompari. Nessuno ti vede, nessuno ti sente, nessuno è quel che sembra essere. Vaghi come un ossesso per poi tornare a fissare il ventilatore poggiato sulla tua scrivania. Non esce niente dalle tue mani. La tua sensibilità t'ha tirato un bidone, fottuto imbrattacarte!...

Comincia come una commedia
, la solita commedia in stile Coen, marchiata da un umorismo nervoso e nero che più non si può e finisce per esser un j'accuse alla noia quotidiana, quella noia che sa d'angoscia.

Barton Fink (1991) è l'opera dei Coen, mattacchioni in questa deriva post-moderna, più carica di simboli e chiavi di lettura. E' un percoso esterno verso il successo (solo potenziale) ed un percorso interno verso la follia, verso la malattia, epicentro del terremoto umano. Tutto si fa sottile, impalpabile, con il passar del tempo. La barba di Barton cresce e si smette di capire. E' tutto un sogno o una storia che finalmente, Fink, ha preso a scrivere?

Tutto ridotto all'osso. Dialoghi secchi e narrazione fatta di sintesi. Personaggi laconici e caratteri sfuggenti, irrisori. Barton Fink sembra una creatura di Cesare Pavese, sia per stile, sia per guai (e non è poca la somiglianza fisica tra John Torturo e l'ultimo Pavese). Uno di quei disadattati che gira per il mondo non riconoscendo gli altri e non conoscendo mai se stesso, abbandonandosi all'unica soluzione possibile: immaginare, fuggire.

...Barton cammina con il suo pacchetto sottobraccio. Ha visto cose strane, ha lo sguardo da folle. Si siede sulla sabbia, alza lo sguardo, guarda un'onda rompersi su uno scoglio e quella maledetta foto della ragazza in bikini è di nuovo davanti ai suoi occhi.

« Stefano sapeva che quel paese non aveva niente di strano, e che la gente ci viveva, a giorno a giorno, e la terra buttava e il mare, come su qualunque spiaggia. Stefano era felice del mare, venendoci, lo immaginava come la quarta parete della sua prigione, una vasta parete di colori e di frescura, dentro la quale avrebbe potuto inoltrarsi e scordare la cella. »  C.Pavese; Il Carcere.

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