Primo comandamento: trovare alleati contro i barbari.

Sotto il peso del mainstream negli ultimi anni siamo stati sottoposti a una grande abbuffata di proposte che hanno credo irrimediabilmente compromesso quella che si è sempre definita la “tradizione cantautorale italiana”.

Prodotti da talent show, gruppi psico-teen, e i vecchi fusti, (Guccini, Fossati, De Gregori) che scelgono la pensione anticipata o un perenne sguardo di retrospettiva. Fucking greatest hits...

Vi parlo di un disco che, in un simile contesto nasce per forza come un lavoro di nicchia.

"Stelle, Rospi e Farfalloni", di Fabio Curto, è un disco che avrei perso di sicuro se scegliessi di tanto in tanto di sintonizzarmi sulle frequenze di una nota radio locale bolognese che offre spazio ad artisti che si esibiscono live presentando i loro lavori. Gente che ci prova e che, fino a prova contraria, non si arrende.

Il disco è una perla assoluta, un notturno costituito da immagini talmente allegoriche che -ci scommetto- ruggiscono di un’impronta autobiografica.

Si comincia con la storia del “Rospo Innamorato”, che è una lettera d’amore carica di ironia, ma al contempo permeata da un'aura malinconica. Sarebbe stata a suo agio tra le tracce di "Macramé", di Fossati.

Segue il racconto del povero Alfonso, condannato ad amare un suora che un tempo era solo una ragazza con cui si andava a fumare, e poi il giocoliere di Poznan che “per un euro fa quello che sa”, lo scultore Omero che, dopo una vita spesa nel freddo della solitudine amorosa diventa portabandiera, “consolatore di chi non ha mai amato”. Una bella collezione di personaggi che restano scolpiti nel cuore e che costituiscono la vivace commedia umana del disco.

"Il Trio dei Farfalloni" è un omaggio alla vita bolognese, una ballata notturna, acustica, una disincantata dichiarazione d’amore verso una città che vede chiusi i locali, dove la notte è l’attesa di un autobus, più che un trionfo di giovinezza e -conseguente- movida.

Gli episodi più felici sono tuttavia quelli che concludono il disco. “Noè” e “Il Corvo” sono le vette di questo album, due tracce che lasciano intravedere una capacità ancora maggiore sia compositiva sia interpretativa di Fabio Curto.

Il primo un brano intriso di un’inquietudine espressa nel trascinante groviglio di note, un’epica cavalcata che si conclude, come per gran parte del disco, nel soffuso.

Un’esplosione mancata, ma bellissima.
"Il Corvo" è l’altro brano che merita una menzione particolare. Un incedere vocale fatto di sussurri, un climax di emozioni narrate a fatica che termina in un grido immenso, struggente:

“fratello sento le porte dell’inferno saldate a tradimento e ci sei rimasto dentro”.

Il disco si conclude e ti verrebbe voglia di abbracciarlo questo artista, questo Fabio Curto, per la capacità con cui ha saputo mettersi a nudo, farsi male e regalarci un disco che sa di poesia.
Forse l’ultima opera che mi ha restituito queste emozioni, proprio per questa tendenza autolesionista ma che porta inevitabilmente alla bellezza, è stato "Queen of Denmark" di John Grant.

Un disco riconciliante, da coccolare come una di quelle cose che stanno scomparendo. Un disco coraggioso che comunque vada resterà una piccola perla benefattrice.

E che il mainstream continui pure a vincere se da questa parte della barriera ci sono ancora dei lupi che ululano alla luna, solitari ma neanche troppo.

Come la cattiva reputazione

comincia dalle dita

dalle loro bugie

 

Raymond Carver

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