Anno 2004, Thailandia: Madre Natura ci ricorda la sua potenza, rovesciandoci addosso un muro d'acqua e fango.

A Phuket, Janet e Paul perdono il piccolo Joshua, travolti dalla grande onda che tutto nasconde e distrugge. Le speranze di una madre sono le ultime a morire e i due non si danno per vinti, restano nel lontano Oriente, coltivando la speranza che il frutto del loro amore non sia scomparso. Bastano un video proiettato da un'organizzazione umanitaria, un frame sfocato ed ecco lo stupore: Joshua è lì, ancora vivo.

"Vinyan" (anima errante, in thailandese) è il racconto di una ricerca allucinata, un viaggio ai confini della realtà che conduce i due protagonisti in una dimensione totalmente "altra", dove l'amore privato del proprio oggetto si trasforma in ossessione, follia. Fabrice Du Welz evita abilmente litri di sangue e tonnellate di banalità, calando lo spettatore in un'atmosfera cupa e paranoica, aiutato dalla splendida fotografia e dalla telecamera a mano, traballante e nervosa, che segue quasi incredula lo svolgersi degli eventi. Inquietante il finale, dove Janet e Paul si trovano definitivamente immersi in un mondo di giovani "anime erranti", invischiati nei meandri più oscuri della natura umana, fino alla shoccante conclusione.

Anche se calato in un contesto inevitabilmente citazionista (i cannibal movies dei primi anni '80, Lynch, perfino Freud e la tragedia greca...), "Vinyan" resta una pellicola disturbante e spaventosa, che rivela, dopo lo splendido "Calvaire", il grandissimo talento del suo creatore. Du Welz conosce i meccanismi della paura ed è capace di impressionare non con un serial killer sanguinario o una creatura aliena, ma mostrando, in maniera cruda e senza filtri, la mostruosità di una mente angosciata.

Una mente disposta a tutto, anche ad un viaggio senza ritorno.

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