L'arte del romanzo dell'epoca antica ci è giunto immensamente lacunosa. Pochissimo è arrivato attraverso i secoli ed il "Satyricon" di Petronio è uno dei pochi esempi. Peccato che anche questo è arrivato mutilato: il romanzo inizia con i due protagonisti che si trovano nei guai, non si sa perchè, procede verso altre mille avventure, il piu' delle volte discordanti tra di loro e di difficile comprensione, e il finale... non si sa bene come vada a finire. I "pezzi mancanti" sono quindi all'inizio, a metà e alla fine, e nonostante i numerosi studi, non ci è dato neanche di sapere quanto potessero essere lunghi e quanti potessero essere. Già solo questo farebbe del "Satyricon" un'opera di immenso fascino, ma un libro del genere tra le mani del piu' grande sognatore di tutti i tempi, beh, diventa qualcosa di incredibile.

Federico Fellini raccontava che aveva ripreso in mano il "Satyricon" mentre era in convalescenza per una operazione chirurgica: e quello che lo attriva di piu' non era la storia, ma gli innumerevoli punti di sospensione, che stavano a indicare elementi mancanti, tra un episodio e l'altro... e così d'un tratto sentiva che iniziava a palesarsi ai suoi occhi "una immensa galassia onirica, calata nell'oscurità che è arrivata a noi fluttuando scintillante". Fellini fa tabula rasa della veridicità storica della rappresentazione dell'epoca classica, e, mantenendo solo lo "scheletro" della trama di Petronio, riempe tutti gli episodi mancanti con immagini e vicende nate dalla sua immaginazione vulcanica. Encolpio (Martin Potter) racconta le avventure vissute inseguendo l'amato efebo Gitone (Max Born) in compagnia dell'amico Ascilto (Hiram Keller). Ascilto partecipa all'allucinate banchetto del ricco schiavo liberato Trimalcione (Mario Romagnoli). In seguito ritroviamo i tre protagonisti prigionieri del brigante Lica, su una nave, e, una volta ucciso Lica, Encolpio ed Ascilto vagano imattendosi nel suicidio di due patrizi (che riprende l'episodio del suicidio dell'intellettuale ne "La dolce vita"), in un ermafrodito, nel minotauro. Accusato di empietà del dio Priapo, Encolpio si sottopone a un bizzarro rito erotico per ritrovare la virilità perduta. E altro ancora.

Se già nella trama si palesa l'assoluta libertà dal testo classico scelta dal regista, questa è ancora piu' evidente nella messa in scena, strabordante, esagerata in ogni senso immaginabile, barocca. La Roma di Fellini è fatta da increbibili, enormi archittetture improbabili, coloratissime, surreali. Lasciano senza parola anche i costumi totalmente a-storici, bizantin-psichedelici indossati dagli attori, e come sempre, quelle facce incredibili che Fellini sapeva scegliere anche per l'ultima delle comparse. Tutto il film è predominato da un sibilo continuo del vento, da desolazione e da immesi spazi vuoti: un senso di fascino decadente, mortifero. Quello che il regista stesso descrive di provare di fronte non alle statue greche, ma alle loro braccia amputate, ai loro nasi rotti. Questa nostalgia indicibile per un mondo mai esistito, ma solo sognato.

Dare un giudizio sul "satyricon" di Fellini è quasi impossibile. Per molti si tratta di una delle opere meno riuscite del regista, quasi una visione assolutamente estrema e lisergica de "la dolce vita". Rimane comunque un'opera ammaliante e ammaliatrice: come stare tra le braccia della Venere di Milo, per citare i Television.

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