Quello che si è consumato ieri sera nella città di Genova, e più precisamente presso la Chiesa Anglicana dello Spirito Santo, è stato probabilmente l’evento concertistico dell’anno per tutti gli estimatori del neo-folk. E’ in quel luogo che ha avuto inizio il Fractured Europe Tour dei Fire + Ice: evento reso ancora più speciale dal fatto che per questa tournée il buon Ian Read sarà accompagnato da tre signori che rispondono ai nomi di Michael Moynihan, Annabel Lee e Robert Ferbrache, ossia i Blood Axis al gran completo (non proprio gli ultimi dei raccattati).
A causa dei limiti imposti dalle caratteristiche della location, l’esibizione si terrà molto presto (a mezzanotte scatterà il coprifuoco) e sarà privilegio esclusivo di sole cento fortunate anime (più di quanto possano sperare Ian Read & soci, ed in effetti non è che vi fosse una gran calca per entrare). Giunti noi altri in lieve ritardo rispetto al programma della serata (ben tre le esibizioni schedulate), la prima delle gioie della serata si paventa insperata nella figura di Ian Read stesso, che incontriamo all’immediato esterno dell’edificio: un Ian Read un po’ rallentato a dirla tutta, ma nemmeno quel personaggio altezzoso e dal fare elitario che ci aspettavamo, considerato che non appare seccato innanzi alla richiesta di posare insieme a noi per una foto ricordo.
In questi momenti mi vien da ghignare al pensiero di coloro che domenica scorsa si sono accampati fin dalle dieci del mattino a far la fila fuori dal Circo Massimo per vedere, insieme ad altre decine di migliaia di persone urlanti, quei pallini sullo sfondo del palco che erano i Rolling Stones (vero è che i Rolling Stones non sono i Fire + Ice…). Ma al di là dei confronti insensati, la mia osservazione è solo un modo per comunicare il clima di intimità che si respirava, laddove nella chiesetta vigeva l’allegria, la gente disquisiva, i Blood Axis scorrazzavano liberamente, e c’era persino un banchetto di cibo e bevande imbandito per racimolare fondi per il restauro della chiesa (oltre al proverbiale mondo gotico nero-vestito, c’erano infatti anche elementi che non parevano azzeccarci nulla con i Fire + Ice – anziani, bambini – probabilmente accorsi per la causa del restauro piuttosto che per il concerto in sé).
La serata viene aperta dai Knotwork, che non sono altro che i tre Blood Axis impegnati in quella che appare un’appassionata rilettura di brani della tradizione folcloristica: tutta roba che somiglia paurosamente alla Marcia di Brian Boru. Più che altro il progetto sembra un’amorevole concessione del premuroso Moynihan nei confronti della Lee, il cui violino stasera farà faville ed attorno al quale sembra essere costruito tutto il resto. La Lee, tutta sorridente e con il suo vestitino camouflage, è a metà fra una receptionist di una palestra sfigata ed una porno-attrice serenamente incamminata sulla via del tramonto, e ci va giù di brutto con il suo violino, mentre Ferbrache le sta dietro svogliatamente con la sua chitarra (nemmeno perfettamente accordata) e Moynihan, immerso nel suo arsenale di percussioni, si ritaglia qualche momento di protagonismo prestando la voce in più di un brano. A parte qualche guizzo qua e là, il set alla lunga stanca (anche se poi avranno suonato una mezzora scarsa), e in tutta onestà spero proprio che il futuro dell’Asse non passi da queste parti (ma mentre penso questo, ho modo di comprendere l’ineluttabilità di questo triste epilogo, in quanto l’ultimo pezzo annunciato da Moynihan è proprio un inedito dei Blood Axis).
Veloce cambio di palco (anche se il palco non c’era: i Nostri erano accovacciati nello spazio innanzi all’abside, appena adiacente alle panche dove sedeva il pubblico) ed è il momento dei padroni di casa Tears of Othila, quartetto ligure dedito ad un folk arcano e paganeggiante perfettamente in linea con il mood della serata. Il sound più composito (chitarra, fisarmonica, violino, percussione, varie voci) rende il set maggiormente avvincente, e in un paio di crescendo viene rotta quella monotonia in cui spesso cade chi si dedica a questo genere di musica. Seppur i Nostri non abbiano brillato per una proposta particolarmente originale, la loro esibizione è tutto sommato un antipasto più che dignitoso al piatto forte della serata.
Altra breve pausa ed ecco che rientrano i tre Blood Axis seguiti dalla figura modesta di Ian Read. Totalmente immobile, impalato davanti all’asta del microfono, con le braccia penzoloni lungo i fianchi (e questo per tutta la durata dello spettacolo, salvo quando, fra una canzone e l’altra, si vedeva costretto a sfogliare il quaderno sul leggio), Ian Read calamiterà l’attenzione su di sé con la sola forza del suo canto, che in verità più che un canto è un sofferto salmodiare. Nella semi-oscurità, rischiarata appena appena da luci blu a bassa intensità, nel completo silenzio del pubblico ipnotizzato, la sua performance saprà sospendere il trascorrere del tempo, assumendo i contorni di un autentico rituale.
E decide di aprire le danze con un destro sparato in faccia all’ignaro ascoltatore: è la mitica “Benediction”, un prezioso regalo a tutti i suoi fan, colto direttamente dallo storico “Swastikas for Noddy” dei Current 93 (correva l’anno 1988). Lo dico per i distratti: sebbene i Fire + Ice siano i meno noti fra le band-pilastro del folk apocalittico, Ian Read può essere considerato a pieno diritto fra i padri fondatori del genere, avendo presenziato in dischi fondamentali per l'affermazione/evoluzione del genere (come quello della Corrente appena citato), e militando nei primissimi album dei Sol Invictus. Nonché avendo aperto un nuovo filone (oggi fra i più affollati) con i suoi Fire + Ice. Potrete quindi capire come questa invocazione sia per gli appassionati un momento davvero magico: la voce di Read è perfetta e i tre compagni le cuciono attorno il perfetto sottofondo folk (la versione originale era cantata a cappella). Segue il ben noto arpeggio di “Dragon in the Sunset”, altro super classico (da “Birdking”), cosa che di per sé ci fa presagire che la serata sarà foriera di incredibili emozioni.
E le aspettative saranno pienamente soddisfatte. Il set sarà via via costellato da grandi classici pescati dall'intera discografia dei Fire + Ice (ed in particolare dall'opera prima "Gilded by the Sun" e dal caposaldo "Hollow Ways") come la struggente “Long Lankin’ e la bellissima “Lord of Secrets”, brani della prima ora come “Corpus Christi”, o più recenti come “Greyhead”, ma sempre interpretati con grande convinzione. Francamente evitabile, a mio parere, l’ostinata riproposizione di un brano come “In the Rising of the Moon”, talmente stucchevole da farmi venire ogni volta che la sento il latte alle ginocchia. Fra quaste, ampio spazio guadagnano gli estratti di “Fractured Man”: con Moynihan dietro allo xilofono, si materializza “Nimm”, ninna-nanna originariamente suonata con i discepoli Sonne Hagal; e poi è la volta della title-track, completamente ri-arrangiata in veste folk (visto che la versione originale era sola voce e harmonium) e della splendida “Treasure House”, autentico instant classic, poderosa ballata incalzata dalle percussioni di Moynihan (addirittura alla batteria durante il ritornello).
Ed ancora: la languida “Aelfsiden” (con la Lee sugli scudi) e il reprise della title-track “Fractured Again” (in cui nel finale Moynihan si lancia nel controcanto che su disco era appannaggio di Douglas Pearce). C’è spazio anche per qualche salto nel puro folclore. Sebbene i brani tendano ad assomigliarsi in modo preoccupante (ad aiutare, in questo senso, è la durata abbastanza contenuta dell’esibizione), la resa nel complesso è buona. In particolare il violino della Lee, che in altre circostanze mi è sembrato insistentemente uguale a se stesso, stasera riesce a carpire meravigliosamente lo spirito peculiare di ogni singolo brano. Pure Ferbrache sembra maggiormente in palla rispetto all’esibizione dei Knotwork, e le percussioni a mano di Moynihan, ora solenni, ora incalzanti, completano degnamente il quadro. Aiuta il fatto che costoro hanno partecipato attivamente alla stesura di diversi pezzi dell’ultimo album (ma già in passato avevano avuto modo di collaborare con il maestro inglese).
“We are Fire and Ice”: con queste parole Ian Read lascia sbrigativamente la scena per tornare qualche istante dopo con il bis di rito. E che bis!, aggiungo io: innanzi a noi tutti si celebra la mitica “Michael”, direttamente dal repertorio dei Sol Invictus del capolavoro “Trees in Winter” (1990), dove Read aveva in pratica cantato metà dei pezzi. Come già successo con “Benediction”, si ha l’impressione di venire a contatto con qualcosa di grandioso. E come con l’altro storico brano, i Blood Axis fanno un egregio lavoro di arrangiamento mettendoci del loro. Il silenzio religioso del pubblico rapito è eloquente. A questo punto è veramente il momento dei saluti.
Tirando le somme, Ian Read è riuscito ad allestire un evento di grande suggestione, nonostante (o proprio per questo) la semplicità della location e la povertà dei mezzi a disposizione. Ed esce a testa alta dal confronto con i suoi ben più blasonati colleghi apocalittici per quanto riguarda la prova on stage: laddove Douglas Pearce è una sorta di ologramma proiettato da un'altra dimensione, che finisce però per pagare lo scotto di una proposta eccessivamente monolitica e minimalista; laddove David Tibet (visto più volte, senza mai convincere pienamente, non so dirvi perché) ha il brutto vizio di sacrificare i classici in favore dei brani dell’album di volta in volta presentato; laddove Tony Wakeford tende a scomparire dietro il carisma dei suoi musicisti e i Blood Axis ti fanno due coglioni grossi come cocomeri con i loro lunghissimi excursus folcloristici (rinnegando totalmente il loro passato industriale), Ian Read si conferma artista onesto e di spessore, capace di calamitare l’attenzione su di sé presentandosi in T-shirt e senza muovere un dito, di imporsi quindi armato del suo solo carisma (visto che le doti vocali son quel che sono) e di saper soddisfare i propri fan con una scaletta equilibrata ed intelligente che sa far convivere presente, passato prossimo e passato remoto.
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