Al suono della sveglia mi alzo ben volentieri, tanto fingevo con gli occhi chiusi. Fuori dal terrazzo il cielo è al suo posto azzurro. Muovo la visuale su un dirimpettaio che dal balcone si stiracchia con addosso i boxer. Il corpo non più giovane ricoperto di peli urticanti. La grigia scala cromatica delle antenne televisive ha accompagnato la mia panoramica verso il basso e mi chiedo se l’esponente del vicinato sia un prolungamento delle sporgenze metalliche, se cerchi di captare frequenze di stupore mattutino come me, di proiettarsi verso l’azzurro per sembrare meno un uomo in grigio, di quelli cantati da Ray Davies.

La sveglia l’ho preimpostata eppure ogni sera controllo, sia mai che mi tolga lo sfizio di cambiare cifre. La località invece non si può installare, sei obbligato ad alzarti nel medesimo posto, con la stessa faccia per giunta. Allora prima di coricarmi, dato che il tempo per sentire un disco va massimizzato, decido io la meta. In modo da risvegliarmi con una parvenza di altrove lasciata dalla musica. Ultimamente il mio spirito guida è la carenza.

A guardare bene il vicino sembra avere gli occhi a mandorla.

Certo, ieri sera ascoltavo la canzone più lunga che abbia mai sentito e proviene dal Giappone, più esattamente da Waikiki Beach, non la spiaggia, bensì uno studio di registrazione a Tokyo. 36 minuti in cui un motivo musicale prende organicamente forma, una jam sospesa su un filo sottile la cui integrità non è mai messa in discussione. La qualità di quest’opera è la compattezza nonostante evochi atmosfere oniriche, un sogno lucido che non necessita di ulteriore astrazione data la barriera linguistica. Credo l’interpretazione giochi un ruolo ancora più importante in casi come questi. Cosa sentire nella voce del compositore Shinji Sato è compito personale, io, per dire, percepisco disperazione e gentilezza.

Shinji si è spento all’età di 33 anni e non sa che la sua creatura ha riscosso popolarità fra le giovani leve. Non prima di salutare nella maniera migliore i suoi ascoltatori, con un bel live del dicembre ’98 in cui è contenuto lo stesso Long Season in tutta la sua interezza. La voce è la miccia detonante l’album: in essa coesistono sensibilità e intensità, il sussurro e il grido di dolore. In alcuni passaggi sembra dilatare la marzialità della sezione ritmica con il suo timbro femmineo. Priva di appigli anche la melodia principale, crocevia tra l’enfasi dub e la malinconica riflessività dello slowcore declinato elettronicamente. C’è la parte con l’assolo di percussioni che da sola vale il biglietto. E poi il produttore si chiama ZAK.

Mi piace pensare che Long Season rilassi come un defaticamento dopo una lunga corsa. La sensazione resta quella di una calma apparente visto che abbiamo ancora un grande senso d’urgenza addosso. Il disco lo consigliò un amico descrivendolo più o meno così: “rappresenta bene gli anni novanta, le cose belle di quel periodo”. Non so se abbia ragione ma non ha torto, spesso è impossibile spiegare la musica a parole, forse la sua frase è la miglior recensione.

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