«Ah, scusa, non c'entra niente, ma visto che tu ne sai sicuro più di me, ho sentito dire un gran bene di tali Flamin Groovies. Spara il loro disco da avere ad ogni costo, uno solo, mi raccomando, non uno di più.».

«”Shake Some Action”, fidati.».

«Scusate se mi intrometto ma nemmeno da “Teenage Head” è possibile prescindere. Rimediali tutti e due e stai sereno.».

«Eh, ma quella è la FG mark 1, se ti piace il rock'n'roll quasi pub rock quasi punk va bene, sennò meglio non rischiare e andare ad occhi chiusi su “Shake Some Action”.».

«Eh, ma mica poi la FG mark 1 è così diversa dalla mark 2, per me se ti piace “Shake Some Action”, ti deve piacere allo stesso modo pure “Teenage Head”, ci sono passato, credi a me che è così.».

«Ma forse la meglio cosa per iniziare è una raccolta, qualcuna in giro a buon mercato la trovi sicuro, oppure quella mezza antologia di “One Night Stand”.».

«Eh, “One Night Stand”, che mi hai tirato fuori, l'ultima cosa bella bella dei Groovies. Quanto manca un gruppo del genere.».

«Vabbè ragazzi, grazie a tutti, vedo quello che riesco a rimediare, magari poi approfondisco il discorso.».

Prima cosa che ho imparato.

Mai, riscrivo in maiuscolo e sottolineo pure MAI, chiedere al sapiente-di turno di indicarti un solo disco, quello indispensabilissimo se non di più, ché poi immancabilmente da cosa nasce cosa e ti ritrovi con una lista in testa che rasenta la discografia completa.

Seconda cosa che ho imparato.

Dei Flamin Groovies esiste un prima e un dopo e lo spartiacque è Roy Loney: Roy, 'fanculo, se n'è andato discretamente un paio di mesi fa, ma bando alla tristezza, perché Roy è la voce di quei Groovies e così me lo ricorderò sempre, quelli che, finché c'è lui, sono una macchina da rock'n'roll che spiana le montagne ed apre le acque; poi Roy se ne va, arriva Chris Wilson e i Groovies diventano un'altra cosa, molto molto bella ma un'altra cosa, quelli di «Shake Some Action», album e brano da scolpire nella sacra tavola del rock.

Terza e ultima cosa che ho imparato.

Per conoscere ed appassionarsi alla musica, come a tante altre cose, serve tanta ma tanta curiosità. E allora prima mi sono comprato «Shake Some Action», bellissimo, poi «Teenage Head», bellissimo pure questo, e alla fine mi ci sono messo di buzzo buono per vedere se prima di «Teenage Head» esisteva vita sul pianeta Groovies.

«Flamingo»!

Ci ho messo qualche anno per arrivarci ma ne è valsa la pena.

«Bravo scemo, potevi chiedere a me e ti snocciolavo la discografia dei Groovies in quattro e quattr'otto.».

«Ma infatti, ti avremmo raccontato la storia del rock, da Elvis agli Stones. È da lì che vengono i Groovies, che ti credi?».

«Grazie ancora, ragazzi, ma la soddisfazione di arrivarci da solo non ha pari. E adesso scusate, ma avrei da fare.».

E che «Flamingo» sia.

Anzi, ancora due righe prima di «Flamingo», solo per introdurre degnamente i Flamin Groovies con le parole di Miriam Linna – musicista a tempo perso e capoccia della Norton Records – che papale papale ebbe a dire che se i Rolling Stones fossero andati in fissa con la Sun Records invece che con la Chess Records, ecco, allora sarebbero stati i Flamin Groovies.

Detto che «Flamingo», dalla prima volta che ho calato la puntina sul vinile fino ad oggi, per me è l'album più bello dei Groovies, resta da dire qualcosa su cosa ci stia dentro.

Allora, prima e più di tutto ci sta tantissimo rock'n'roll fragoroso, anno di grazia 1970, ben prima del pub rock e del punk, e se qualcuno tirasse fuori quelle due paroline – proto-punk – beh, ci stanno tutte. Chè poi qualcun altro (l'ottimo Eddy Cilia, mi pare di ricordare, oppure Federico Guglielmi, non si scappa, gli unici due cultori rock che ancora oggi per me colano oro), scrivendo della copertina di «Flamingo», descrisse la loro immagine come una via di mezzo tra gli Stooges e i Rolling Stones. Fuori i brani, adesso: «Gonna Rock Tonight», titolo programmatico come pochi, strategicamente piazzato in apertura; «Heading for the Texas Border», capolavoro assoluto, e gli Stones avranno pure dalla loro «Satisfaction» e mille altri classicissimi ma, per chi intende il rock in un certo modo difficile da descrivere a parole, almeno per me, questo pezzone da solo li vale tutti, i classicicissimi degli Stones; il rifacimento di «Keep a Knocking», dal repertorio di Little Richard; quell'altro capolavoro che è «Second Cousin», che mi piace pensare come omaggio al Re e alla sua «Kissin' Cousins» e pure ai Saints che la ripresero nel loro album di esordio sette anni dopo, perché i Flamin Groovies furono un gruppo che guardava indietro di qualche decennio ma fu fonte di ispirazione per una valanga di nuove leve che avrebbero iniziato a calpestare le assi di un palco anni e anni dopo di loro, butto là un Jack White, tanto per dire; e alla fine «Road House» che chiude il cerchio a meraviglia, come «Gonna Rock Tonight» lo aveva aperto, giusto per ribadire senza timori di smentite che il Road House è un posto per duri e carico di blues elettrizzante, e Wilco Johnson e il dottor Feelgood ci arriveranno 5 anni dopo, più o meno.

Sommersi nel marasma, rimane da dire di un po' di blues bello tirato alla George Thorogood, un altro po' di rhythm&blues, un tantino di psichedelia e di un tocco di indefinibile, per gradire.

E questo, in parole semplici, è «Flamingo», anno di grazia 1970, appunto.

L'anno prima c'era stato «Supersnazz», che gettava i semi di «Flamingo» ma, preso a sé, rimane un tantino defilato, anche se dentro ci stanno alcuni grandi pezzi; ancora prima fu il turno di «Sneakers», che fiutava l'aria e sondava il terreno, ma di certo non lascia presagire quel monumento che è «Flamingo»; dopo sarà quella meraviglia di «Shake Some Action» ed altre prove di un talento purissimo, sempre ai margini della scena che conta.

Come se ai Flamin Groovies fosse mai fregato qualcosa di contare.

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