Il tempo che ci vuole

“C’è la vita prima del cinema”, con questa battuta uno bravissimo Fabrizio Gifuni, nei panni del regista Luigi Comencini, fulmina il suo assistente sul set del Pinocchio televisivo girato nei primi anni 70. E appunto di vita attraverso il (o forse addirittura di traverso al) cinema parla questo film autobiografico, diretto dalla figlia Francesca. In primissimo piano, per tutta la durata della pellicola, c’è il racconto della relazione tra padre e figlia, partendo da quando Francesca era bambina, fino all’età adulta, con un grosso salto temporale dall’infanzia alla piena adolescenza. La narrazione è costituita soprattutto da episodi, molti legati al mondo del cinema e arricchita anche da un corposo inserimento di spezzoni di film muti, salvati dalla distruzione proprio da Comencini padre, nei primi anni del secondo dopoguerra.

La Comencini, con una scelta un po’ straniante a mio avviso, decide di concentrare tutto il film sul suo ricordo del padre e del loro intimo rapporto, eliminando qualsiasi altro familiare o figura di contorno. Ne esce una costruzione sincera e in parte coraggiosa, nella quale mette a nudo il suo periodo più buio (quegli anni difficili, da cui trarrà il suo film di esordio), dominato dalla tossico dipendenza, ma anche un po’ claustrofobica, specialmente nel lungo periodo parigino, in cui il padre si dedica interamente a lei nel tentativo di salvarla, rinunciando pure al lavoro per “il tempo che ci vuole” (e, come si diceva all’inizio, perché la vita viene prima del cinema).

I dialoghi sono sostanziosi, si parla soprattutto della vita, nel confronto tra un padre dotato di grande fantasia e immaginazione e una figlia fragile e insicura, che nonostante l’amore paterno fatica a trovare il suo posto nel mondo, come quando da piccola, sul set del Pinocchio, non riesce a trovare la giusta direzione per uscire dalla scena che si sta girando.

Ci sono in gioco i sentimenti, molti e forse alla lunga un pochino troppi, concentrati tutti in questa relazione così serrata, dosati con un certo grado di comprensibile pudore, ma in parte anche trattenuti, tanto che l’emotività rischia di stemperarsi e anche la giusta commozione di diluirsi e svanire un po’ troppo in fretta. In certi momenti culminanti si fatica ad andare più in là, ci si ferma prima, per paura di sporcarsi o forse per non rinvangare ricordi troppo dolorosi (almeno questa è la sensazione che ho provato io, non è poi detto che siano dei veri difetti).

Il film è ricco di citazioni e rimandi, oltre che ovviamente del cinema di Comencini, anche dei grandi registi italiani, Rossellini (con lo spezzone di Paisà in tv) e De Sica nel finale volante. Girato con cura, inserendo alcune riuscite dissolvenze incrociate tra i paesaggi e la balena di Pinocchio, e giocato molto sui vari piani di messa a fuoco nelle inquadrature del padre, come se fossero ricordi che emergono in quei momenti, e nello scandire il tempo attraverso i notiziari tragici degli anni di piombo.

L’interpretazione di Gifuni è sublime, un grande lavoro fatto soprattutto con il corpo, i movimenti che col passare degli anni passano da leggeri e agili a lenti e pesanti, l’espressività del volto che racconta più di quanto venga detto (da sottolineare un piccolo cortocircuito che non può non avvenire nello spettatore, quando Gifuni, seduto sul divano assiste al telegiornale in cui vengono trasmesse le immagini del ritrovamento del cadavere di Moro e per un attimo sembra che guardi se stesso). Molto brava anche Romana Maggiora Vergano nella parte della figlia adulta e pure la piccola attrice che la interpreta da bambina (un marchio di fabbrica questo della famiglia Comencini).

Un film sincero, abbastanza ben riuscito, considerando i rischi insiti nelle produzioni autobiografiche. Personalmente non mi ha fatto scoccare la scintilla, è forse mancato il colpo d’ala (nonostante il finale), ma interessante in molti suoi aspetti.

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