“Io credo nell'America. L'America fece la mia fortuna. E io crescivo mia figghia comu n'americana, e ci detti libertà, ma ci insegnave puro a non disonorare la famiglia. Idda aveva un boyfriend non italiano, se 'nnia o cinema insieme tornava a casa tardi e io non protestavo. Due mesi fa lui l'invitò in machina con n'avutro amico suo. Le fecero bere Whisky e poi cercarono di approfittarsi di lei. Lei resistette, l'onore lo mantenne. E iddi la pestarono, come n'animale...”.

Come un grande capolavoro teatrale, il film si apre con una scena madre di mezz'ora circa. Un matrimonio pacchiano e fracassone (si sposa la figlia del padrino) con tante nicchie di dialogo nello studio di don Vito. Tra balli e tavolate imbandite il regista costruisce già qui tutta l'intelaiatura concettuale della sua opera, con finestre oscure e sussurrate che si aprono come abissi nel contesto sgargiante e rumoroso. L'apparenza goliardica e affettuosa da un lato e dall'altro i meandri infiniti del labirinto di potere che il padrino ha saputo costruire e ora padroneggia. Sicuramente, l'effetto sorpresa arriva con la risposta del boss, che individua con poche frasi esatte il suo sistema di valori. Loro non sono mica degli assassini a pagamento. È una questione di amicizia e favori.

Inutile girarci intorno. In termini strettamente estetici, questo è uno dei film più belli di sempre. È tutto squisito il tessuto artistico, ogni sequenza necessaria e imperfettibile. Una galleria di personaggi memorabili, un ordigno narrativo che sa essere semplice, nitido, eppure implacabile. Un'epica nuova, fresca perché tutta immersa nel mondo della mafia e del crimine, e proprio per questo irresistibile. Coppola riscrive le regole del gioco, e lo sa bene. Per farlo, agisce furbescamente in almeno due frangenti.

Nella qualità finissima della scrittura, Coppola e Puzo compiono qualche minima forzatura. I personaggi sono sì memorabili, don Vito Corleone si staglia come un gigante, Clemenza è meraviglioso, ma c'è anche qualche piccola apparente sbavatura, necessaria per un “bene più grande”. Qualche schema un po' grossolano emerge nella dicotomia tra Santino e Michael, si insiste anche troppo sull'istintività aggressiva del primogenito, che sembra avere un po' poche sfumature e un'intelligenza troppo scarsa per essere figlio di don Vito. Michael invece fa un doppio salto carpiato, da militare decorato a nuovo spietato boss. Un'escursione un po' troppo ampia e repentina. Sono imperfezioni queste figlie della necessità di costruire un quadro ampio, con molti personaggi e tante sfumature di grigio. Se don Vito è sfuggente e impossibile da catalogare, una sfinge senza risposta, Michael inizialmente è ancora senza macchia. La facilità e la rapidità con le quali diventa quello che tutti sanno non è propriamente tra i punti più alti della coppia Puzo – Coppola.

La seconda aporia, ben più significativa e profonda, riguarda le scelte. A differenza del secondo (e ancor di più del terzo, pur coi suoi limiti) qui i protagonisti non fanno davvero delle scelte. Non c'è mai un vero dubbio che si instilla nei personaggi: Santino sceglie e sceglierà sempre una strada, Tom Hagen un'altra, Michael una terza ancora. Non esiste quasi l'arbitrio, non viene rappresentato. Le meccaniche sono inevitabili, come in una tragedia greca, il destino dei protagonisti è già scritto. L'unica vera fase di transizione è quella di Michael, ma come detto è repentina.

Questi che sembrano difetti vanno presi per quello che sono: scelte necessarie da parte del regista per costruire una narrazione epica davvero efficace. Coppola sa benissimo di compiere delle forzature, ma non può farne a meno. Per il dubbio, per l'angoscia, per i tarli morali ci sarà tempo dopo. La parte II è tale anche per le scelte radicali di questa prima opera. Qui davvero si può parlare di eroi mafiosi, l'impostazione è squisitamente ingenua (non per ingenuità, ma per furbizia estrema) e lo spettatore si lascia trascinare senza fare obiezioni. Coppola è il puparo che manovra a piacimento le emozioni del suo pubblico, che si trova a tifare spudoratamente per uno che spara in faccia alla gente. Come nella parte in flashback della parte II, anche qui i ritratti e gli scenari sono figli di una narrazione fortemente omertosa, che sa essere reticente su fatti e argomenti che non gioverebbero alla reputazione dei nostri. E così si costruisce il mito di don Vito, così si accettano le atrocità di Michael, perché arrivano come reazioni ad atrocità subite. Alla fine uno perde l'orientamento e si trova a godere di fronte a sequenze a dir poco terrificanti come quella del battesimo, durante il quale il nuovo padrino fa fare piazza pulita.

Ma il cineasta non si accontenta di soggiogarci. Dopo quasi tre ore in cui ci ha tenuti nel taschino, con la bocca aperta, ci fa aprire per un attimo gli occhi. Tutto è compiuto, Carlo è stato sistemato. Il pubblico è soddisfatto, applaude. Poi arriva Connie, che disperata inveisce contro il fratello. E sua moglie Kay gli chiede se ha davvero fatto quelle cose. Dopo la grande adrenalina epica lo spettatore torna al piano della realtà, dopo il giro di giostra Coppola lo riporta coi piedi per terra. Ora gli scagnozzi baciano le mani al nuovo don e noi ci sentiamo come Kay, con la porta chiusa in faccia, nell'altra stanza in modo da non sentire.

L'inganno di questo film verrà riproposto in forme differenti nel secondo capitolo. Ma sono troppo distanti gli umori delle due opere per fare un confronto. Alla decadenza amletica di quello si contrappone un'epica impetuosa in questo primo monumentale lavoro. Come in guerra, come nel mito, non esiste colpa per l'eroe che uccide. Il concatenamento di nefandezze e vendette è troppo stringente per distinguere una singola tessera morale. Questa è la forza del film, che ha conquistato tutti, sia chi ne ha compreso la fondamentale problematicità (qui subdolamente scansata, ma accecante nel finale che fa ridiscutere ex-post tutto ciò che lo precede) sia chi s'è lasciato ingannare ingenuamente, incalzato dalla bellezza tenebrosa di trame così avvincenti. Ma in fondo tutti ci siamo cascati, inutile negare. Lo stesso James Caan, l'attore che impersona Santino, disse che dopo aver visto questo film viene voglia di far parte di queste famiglie. Insomma, Coppola ha fregato pure lui.

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