Un  film poco amato da Truffaut stesso, che vedeva ne "La calda amante" ('63) il tentativo fallito di raccontare le miserie della borghesia parigina, senza essere riuscito ad immedesimarsi nel protagonista, e senza aver  creato con gli attori l'empatia dei suoi primi lavori; un film snobbato dalla critica, che forse si aspettava un seguito delle atmosfere e dei toni di "Jules e Jim"; un film mal accolto dallo stesso pubblico, tanto da finire fra i lavori dimenticati di Truffaut, regista che già di per sé non sbancava i botteghini.

Ci si potrebbe fermare qui, e chiudere ancor prima di iniziare una recensione su questo lavoro: se non fosse che quando lo si vede si resta interdetti per il senso di desolata ineluttabilità che lo accompagna, per il modo in cui Truffaut ci parla di una storia d'amore con i toni del giallo, o - che forse è lo stesso - ci narra dell'amore come premessa del dramma, familiare e personale. Si resta interdetti dal film, come pure dal giudizio negativo - forse ingeneroso - che per troppi anni lo ha accompagnato, fino all'inevitabile rivalutazione.

E' una rivalutazione che si deve condividere, pur con alcune riserve.

Quale che fosse il giudizio di Truffaut sul suo film, c'è da dire che "La calda amante" si colloca in piena continuità con i precedenti film del regista: c'è la Parigi delle vie e dei palazzi - come ne "I quattrocento colpi" - ci sono le vite delle persone comune sospese fra quotidianità, commedia e dramma, ci sono i sentimenti, in tutti i loro risvolti, c'è il tentativo di rinnovare la propria vita - come in "Non sparate..." - che fallisce a fronte della difficoltà di conciliare le proprie aspettative con quelle degli altri - come in "Jules e Jim" -  lasciando che il destino compia il suo corso all'insegna del classicheggiante binomio fra amore e morte.

Temi, questi, che Truffaut non solo aveva maturato nei precedenti lavori, ma che avrebbe continuamente rivisitato nel corso della sua carriera, quasi che, ciclicamente, fosse per lui necessario tornare a riflettere sulla fragilità e, al contempo, sulla paradossale forza di certi legami che sfociavano nella tragedia quando gli eventi li mettevano in discussione; quasi che il ragazzo dalle origini tormentante, dalla famiglia instabile, tornasse - uomo ed autore -  a riflettere su se stesso e sulle origini dei propri turbamenti, ma anche della propria poetica sugli amori in fuga - e la fugacità degli amori -  per ricorrere ad un termine tanto abusato quanto adatto al regista.

Un film coerente con il percorso di Truffaut, e, contemporaneamente, un significativo scarto nel linguaggio del regista, che proprio in questo lavoro di passaggio comincia ad affinare il proprio linguaggio narrativo, la propria tecnica registica, distaccandosi da alcuni tratti calligrafici che avevano contraddistinto i suoi primi lavori (i toni da romanzo di formazione de "I quattrocento colpi"; il noir necessariamente sordido di "Non sparate..."; la montagna bucolica o la Parigi da belle epoque di "Jules e Jim"), a vantaggio della sintesi narrativa e della coesione drammaturgica.

Si tratta di pregi che sembrano derivare direttamente da alcuni film di Hitchcock , tanto che, a vedere "La calda amante" senza conoscerne il regista, si potrebbe essere tentati di crederlo un film di quest'ultimo: basti pensare alla lunga sequenza in cui il protagonista si fa portare in aeroporto alla volta di Lisbona, dove il dramma ha inizio, ed in cui sembra di intuire, sotto i cieli di Parigi ed i fari delle auto, l'inizio di un mistero, quasi una caccia: non al ladro, come si scoprirà, ma ad una nuova donna, e ad una nuova vita.

A prescindere dagli aspetti formali, "La calda amante" spicca per essere una storia di aspirazioni poetiche senza poesia, di tentativi epici di riscatto senza epica, di passioni senza passionalità autentica, di sentimenti senza sentimentalismo, e forse anche senza cuore: nel narrare di un intellettuale borghese che si innamora di un'avvenente hostess, maturando la decisione di lasciare moglie e figlia per rifarsi una vita, Truffaut non trova gli aneliti di libertà di "Jules e Jim", né la malinconica accettazione del destino del pianista, quanto la dimensione del capriccio, dell'ipocrisia, della routine della trasgressione stessa, e dei tentativi di nuovi inizi, delle finte palingenesi: ovvero di tutto ciò che resta della tensione romantica, o del febbrile decadentismo, una volta che la poesia cede il passo alla realtà e si mostra come una parentesi, come uno slancio temporaneo.

In questa prospettiva, il film ci regala personaggi ed ambientazioni magistrali, impedendo di separare le persone e le azioni dai luoghi, che formano un tutt'uno compatto ed unitario: Pierre, il protagonista, non a caso un intellettuale - edotto di teoria, più che di esperienza; di parole, più che di gesti; di sogni e ambizioni, più che di azioni - si muove dall'interno borghese del proprio appartamento, ordinato e ricco quanto freddo, verso una Lisbona esotica e ammaliante, attraversata da "tram chiamati desiderio", come chi passa dall'immobilità alla vita; l'amante Nicole, superficiale quanto affascinante (agli occhi del protagonista affascinante perché superficiale) pura bellezza, è un personaggio che per lavoro si trova in movimento continuo, senza essere di casa né a Parigi né altrove, e senza volere, al dunque, una casa ed una stabilità, un nuovo inizio; Franca, la moglie, latina e focosa, ma arsa dal fuoco freddo di chi vuol conservare casa e marito come apparenza ed appartenenza alla borghesia della capitale, è tutt'uno con la casa prigione da cui nessuno deve uscire per non perdere la propria fragile identità.

Nei tre personaggi principali del dramma, e nel loro rapporto con i luoghi e le cose, si trova una delle possibili chiavi di lettura del film: lui, il marito, contraddittorio fra la quiete e la fuga, tanto da voler riprodurre, dopo i tentativi di fuga con l'amante, una nuova stabilità in nuovo appartamento signorile; lei, la moglie, arroccata negli interni borghesi della propria casa, fin quando la certezza di aver perso tutto la porta ad uscire, per incontrare il marito nel bistrot in cui si chiude la storia; l'altra, l'amante, colta a bordo di un aereo, di un'auto , come qualcosa di indeterminato, di insondabile, di mai fermo, sino al punto di non avere identità certa, qualità definibili: neppure il fatto di essere "calda" (o di avere la pelle "morbida", come vorrebbe il titolo originale), come suggerisce il titolo del film, tanto è algida Francoise d'Orleac.

Visto così, il film sembra spiccare più per le suggestioni che ispira, variabili a seconda dei punti di osservazione e della sensibilità di ognuno, più che per caratteristiche intrinseche; non è forse un cinema memorabile - gli attori stessi interpretano figure fredde, quasi senz'anima, forse per questo non troppo amati dallo stesso regista - e neppure un cinema dei grandi slanci poetici del primo Truffaut; sembrerebbe, allora, quasi un'opera di mestiere, cui, col senno di poi, si finisce per dare un valore maggiore di quello effettivo, forse suggestionati dalla fama del regista, dalla nomea che si sarebbe costruito, dopo i grandi esordi, nei film più maturi dei decenni successivi.

Eppure, con tutti i suoi limiti, si tratta di un film che ammalia, fra i più avvincenti di Truffaut: forse perché la tensione fra restare e fuggire, conoscere e dimenticare, vivere e lasciarsi vivere - filo portante del film - è la tensione che anima, e talvolta disanima, il nostro quotidiano ed i nostri sogni possibili. Dopo "Jules e Jim" restano un salotto vuoto ed un appartamento sfitto: Jean Desailly e Francoise d'Orleac sembrano volti scolpiti nel marmo, come le maschere funerarie di un amore nato morto.

Troppo crudo, il tutto, anche per  Truffaut, che alla fredda cronaca di morti annunciate avrebbe preferito, in futuro, i toni più languidi del melò, la malinconia degli amori mancati all'anatomia delle relazioni fallite.

Carico i commenti...  con calma