Tirate sul pianista è il secondo lungometraggio di Francois Truffaut, uno dei registi più grandi di sempre e, a mio avviso, particolarmente originale.

Dopo il folgorante esordio (capolavoro) I 400 colpi, film per certi versi autobiografico, intriso di un neo-realismo all’italiana ma non più proletario bensì borghese, cambia completamente rotta e si getta nel solco, che lui stesso traccerà a fondo, della cosiddetta Nouvelle Vague.

Lo stesso anno, siamo nel 1960, uscì, poco prima, Fino all’ultimo respiro del collega “paesano” Godard, altra pietra miliare del movimento Nouvelle Vague.

Tirate sul pianista è un oggetto curioso e affascinante, indecifrabile e cangiante. Immaginate di avere un prisma luminoso in mano… lo guardate, lo muovete, lo girate… non sapete da che parte osservarlo…

Tirate sul pianista, facendo un parallelo con la musica, è un genere cross-over. Partendo da un impianto ispirato al noir americano, a sua volta figlio dei romanzi hard boiled, spesso, nei suoi 90 minuti, guizza e vira nella commedia, nella tragedia, nel surreale, mescolando gli ingredienti apparentemente alla rinfusa. Il critico Alberto Barbera, lo definì (magistralmente) "una passeggiata incontrollata". Semplice come una passeggiata appunto, ma incontrollato perchè (direbbe Paolo Conte) "svisa e vola sopra le tenebre per noi"...

La storia: sì c’è una storia peraltro basata su di un romanzo: Sparate sul pianista di David Goodis ma, sempre a mio avviso, non è poi così importante nell’economia del film.

Mi spiego meglio: non è certo l’intreccio ad avermi inchiodato alla poltrona.

Non sono stati i colpi di scena ad avermi fatto spalancare la bocca. È il lavoro complessivo di Truffaut che mi ha ammaliato.

Tirate sul Pianista è un film “vivo” non so come spiegarlo, trasuda energia.

Non trovo neanche semplice spiegare in cosa si traduca l’originalità di Truffaut… forse in una rappresentazione della vita più viva della vita stessa? (discreta questa, peccato sia solo una frase a effetto). Oppure in quella sua aria distaccata, per certi versi rappresentativa, in un certo qual modo parente della pantomima, che ti fa assistere ad un’opera con distacco, senza un particolare coinvolgimento emotivo, quasi che voglia connettersi più col tuo cervello che non con le tue emozioni? Chi lo sa… è un film volutamente irrisolto, proprio come la vita ed il suo senso. È un film massimamente rappresentativo perché non emette giudizi di sorta, né ti fa capire da che parte sta, perché? Perché non gliene frega niente, oppure gliene frega eccome ma te la butta lì, con non-chalance.... e chi ha più non-chalance di un artista francese? Ed è in questa sospensione del giudizio che capisco di avere assistito ad un’opera (d’arte) per certi versi “pura” proprio come dovrebbe (o vorrebbe) essere l’arte.

Che dire poi della modernità dell’opera? Quell’urgenza di emancipazione parlando, ad esempio, del tema relativo al rapporto uomo-donna. Un film che trasuda maschilismo in tutti i suoi protagonisti tranne che in uno: IL protagonista, Charles Aznavour: l’istrione. Il timido pianista, già grande esecutore di musica classica nei migliori teatri di Francia, ora ridotto a suonare in un locale di terz’ordine. Perché ha fatto questa fine? Un flash-back ce lo dirà.

A tutto questo, va a sommarsi (e ti pare poco?) la straordinaria tecnica registica: dalla fotografia, ai tagli di luce, dal montaggio alle sequenze spettacolari, vedi l’inseguimento che culmina col posto di blocco della polizia, davverio fantastico, e stiamo parlando di 63 anni or sono eh?

Che dire ancora? Uh, son sicuro che su questo film ne sono state stese di pagine, anche qua c’è una rece (molto ben fatta) del 2011 di un utente/ammiratore di Francosi Truffaut. Beh, mica sarai geloso se oggi (anzi da ieri) lo sono anch’io…

copriti il seno, al cinema non fanno vedere un seno nudo di donna per così tanto tempo...

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