Tira più un pelo di Will Smith che un carro di buoi?

Sembrerebbe così se in America, nonostante le pesanti stroncature di quest'ultima fatica di Gabriele Muccino, in tanti sono corsi a vederlo così da farlo salire al secondo posto nella classifica di gradimento dei cinepanettoni. E perché non voglio credere che il nome di Muccino oppure la storia trapelata possano aver convinto tante persone a non dar retta a gran parte della critica cinematografica, che non ha risparmiato il regista italiano e l'ex principe di Bel Air considerandoli nell'ultimo dei casi "incomprensibili" o "eroi all'ultimo stadio". Credo, invece, che Smith, oramai sia un campione a priori di incassi e che qualsiasi sua apparizione, indipendetemnte dai contenuti, sia oro nelle mani dei cinematografici.

Ma senza voler essere critici, senza voler dare adito a quella a stelle e strisce, come è questo Sette anime?

Per me è un giudizio simile in tutto e per tutto alla precedente sodalizio Muccino-Smith, La ricerca della felicità: entrambi sono una versione in celluloide di una puntata di Carramba che sorpresa o qualsiasi altro programma dalle lacrime facili, classici films con il magone ed il fazzoletto a sostituire la coppa di pop corn. Entrambi sono diretti da un regista nella media, il buon Muccino, che per i miracoli si affida al sicuro "mister dollaro" Will.  Solo che Sette anime vuole dare una visione pessimistica, oltre modo e se non ce ne fosse bisogno, della vita ed elevare un uomo qualunque, al ruolo di supereroe ma senza superpoteri.

Proprio Smith è quello che fa stare su il film. Ad essere bravo lo è, soprattutto perché oramai si è completamente liberato di quell'area da guascone che in passato me lo rendeva poco credibile in ruoli cosiddetti seri. Ed è la sua sofferenza di uomo colpevole, nascosta da una finto velo di sicurezza, la sua ostinata missione di redenzione, il leit motiv del film.

Lui è bravo ma quello che cerca è, obiettivamente, poco credibile. La voglia di aiutare sette persone dopo averne uccise altrettanto, la lenta ed inesorabile autodistruzione del protagonista si scontra con la logica di sopravvivenza insita in ogni essere vivente. Il senso di colpa, per quanto grande, per quanto cresciuto nell'animo del protagonista, si viene a scontrare con il naturale istinto di conservazione: alla fine l'importante è sopravvivere. Questo, purtroppo, sfugge a Muccino, che alla ricerca del "colpo che fa piangere" rifugge a regole fondamentali della nostra esistenza. E non basta la bravura di Smith, la dolcezza e le debolezze del personaggio interpretato da Rosario Dawson a farmi cambiare l'idea che la costruzione del tutto sia artificiosa.

Così il regista che aveva sempre cercato di raccontare la sua realtà (sempre sua ma mai mia, chissà perché) in films come L'ultimo bacio e Ricordati di me improvvisamente si trasforma in un improbabile chansonnier o, se vogliamo, in un menestrello che canta di amori, banditi e eroi senza macchia.

Insomma, un po' romantico, un po' fantascienza...

 

Voto, 2,5

 

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