Tutto è nero

Un uomo che racconta. Un racconto. Il racconto non è didascalia di un momento, è immaginazione, è intuizione o ipotesi. Il racconto parte da un groviglio di pensieri, e spesso la cosa più difficile non è partorirli ma districarli.

Una narrazione attraverso il pensiero senza filtri del protagonista: e sì che richiama l'incazzatissimo Travis Bickle di Taxi Driver. E si che, come lui, rimugina sul senso dell'esistere anche in un cinema porno, ma nel mio ignorantissimo e grezzo modo di vedere le cose non c'è sistema più vincente.

Gaspar Noé racconta un percorso psicologico che segue una strada obbligata verso la depressione e l'oblio, verso la perdita della ragione e verso l'istinto più animale dell'essere umano. Troppo facile combattere le lunghe introspezioni del protagonista fatte di discorsì tra sè e sè attraverso la voce fuori campo che ne interpreta il pensiero, con risposte di positività e futili smorzamenti da bar. Come se si fosse gli unici a sapere che non tutto al mondo è lì per devastare la nostra esistenza: criticare il nichilismo di questo film è quanto di più eclatante ci possa essere come dimostrazione di superficialità e presunzione.

Le immagini statiche alternate a lunghi piani sequenza che riprendono un Philippe Nahon (impeccabile) quasi muto per tutto il film, cercano di raccontare come un uomo possa arrivare a tanto, il regista si sforza di mettere in scena una vera ascesa alla sconfitta personale, cercando di mantenerla verosimile per tutta la durata del film: questo significa anche rendere le riflessioni del protagonista un martello pneumatico spinto dall'odio, dalla repressione, dal senso di impotenza, dal disgusto, dalla rabbia cieca.

E poco dopo un countdown che ci suggerisce di abbandonare la visione del film entro trenta secondi, l'uomo che fino a questo momento era solo contro tutti, ma anche solo con se stesso, trova la sua via per continuare l'esistenza tanto odiata, rendendola se possibile ancora più amara. Mi dispiace.


Carico i commenti... con calma