Lo studio e l'analisi delle odierne forme di approccio alle tradizionali fonti della musica colta pone interessanti problematiche circa l'attuale interesse nei confronti di ciò che non si può esitare a definire "musica lirica". E' curioso osservare come buona parte dell'uditorio "moderno", quello che per intenderci è composto da individui attenti alle tendenze musicali in voga e non, nel momento di interessarsi alla musica colta esprime preferenze per il genere della Sinfonia, per la Sonata, il Concerto, per espressioni musicali, ovvero, di cui esponenti della musica classica tout court -permetteteci questa generalizzazione, senza addentrarci troppo- si fanno interpreti attraverso strumenti e orchestra.
Per quale motivo coinvolge più la "Sinfonia in Sol Minore K550" di Mozart della "Norma" di Bellini, per qual motivo si preferisce il "Mattino" del "Peer Gynt" di Grieg alla "Lakmè" di Delibès? Ebbene, spiegare con completezza cosa provochi freddezza nei confronti della lirica non è facile: in questo caso, si prenderà la licenza di ricercare le ragioni fondamentali, e senza dilungarci troppo potrà apparire perlopiù palese che una di tale ragioni è l'evidente alterità di linguaggio.
Il linguaggio di cui parliamo si articola su due livelli: livello lessicale e musicale. Nel primo caso il riferimento è ad una scelta linguistica, quella del libretto, che non può ovviamente confarsi all'odierno standard lessicale, mentre nel secondo si accenna ad una forma canonica, quella della "composizione lunga", piena di stasi e acmè, che non può prestarsi ad un tipo di ascolto attento e costante. Ebbene, dimostreremo che queste barriere possono essere superate, e che il linguaggio della lirica è per certi versi moderno e attuale.

Primo argomento della dimostrazione: Giacomo Puccini. Come Nietzsche chiamò Euripide "l'uccisore della tragedia greca" per le sue velleità di rappresentazione "terrena" dei sentimenti umani, così potremmo chiamare Puccini, con buona licenza, "l'uccisore dell'opera", l'indiretto carnefice dei grandi aneliti umani espressi attraverso le figure dei grandi della storia e delle figure del mito: non più il temerario Sigfrido di Wagner, non più il truculento Macbeth di Verdi, non più l'immortale Faust di Gounod; adesso attraverso l'opera del compositore lucchese l'attenzione va alla fragile Mimì de "la Bohème", alla debole Liù della "Turandot", all'indifesa Lauretta del "Gianni Schicchi".

Secondo argomento della dimostrazione: la "Madama Butterfly" dello stesso autore. Opera di preziosa levità, non a caso al suo esordio a Brescia nel 1900 fu sonoramente fischiata: il linguaggio formale e contenutistico di Puccini, moderno e innovativo, non venne compreso. L'opera parla di uno scontro di culture, una faida tra nazioni dalle tradizioni troppo distanti per non potere, direttamente e non, entrare in conflitto: la disfida tra il Giappone tradizionalista delle timide geishe e l'America progressista degli arrampicatori sociali. E' il racconto del piccolo dramma di Cio-Cio-San, che appena quindicenne si invaghisce del tenente della marina americana B.F. Pinkerton, rinnegando per lui la propria religione e i propri culti; abbandonata dai parenti furiosi per la scelta esecranda, Butterfly verrà lasciata anche da Pinkerton con in dote il figlio del suo nefasto amore: speranzosa di rivedere l'amato, lo vedrà tornare soltanto a distanza di anni, ormai sposo di una donna americana e intento a strapparle il bambino; l'esito è tragico, con Cio-Cio-San costretta a togliersi la vita.

E' l'opera un lavoro di cesello straordinario, un esempio di dolore e lirismo cui la meravigliosa attitudine compositiva di Puccini fa onore con superba maestria. Attraverso abbacinanti arie come "Spira sul Mar", "Un bel dì vedremo" e "Tu, tu, piccolo Iddio" si enucleano in maniera esaustiva le rispettive sensazioni di effimera felicità, speranza e sgomenta dignità di Butterly, pennellate ad arte che ben rendono le molteplici forme di un orgoglio, quello giapponese, che vede nell'etica dell'impegno personale un vincolo, che se non rispettato, non può che avere giusto ed inevitabile compimento nell'harakiri. Per contro, è Pinkerton l'archetipo dello Yankee americano, l'esponente di una civiltà che ha dimenticato la ritualità dell'unione spirituale, il meschino arrampicatore che nel momento della verità non sa confrontarsi con le proprie decisioni: "Addio, fiorito asil" recita il tenente americano nel rivedere la sua antica dimora di Nagasaki, incapace di discernere tra i vecchi rimpianti e i presenti legami affettivi. Pinkerton e Butterfly, tasselli incompatibili di culture che anche la storia avrebbe visto collidere in più di una tragica circostanza: folgorante e profetica attualità del messaggio di Giacomo Puccini.

Un'analisi superficiale, per così dire, di un lavoro eccezionale, mosca bianca nell'indice delle preferenze dei "musicomani" di oggi: potremmo stare ore ed ore a parare delle splendide invenzioni musicali di Puccini (vedi ad esempio il geniale "Coro muto" del finale di Secondo Atto), della caratterizzazione melodica dei personaggi di contorno -Suzuki e Goro su tutti-, della ricca influenza di stili musicali eteroctoni sull' opera; potremmo, ma per i nostri scopi la dimostrazione è fatta, e non è nemmeno stato necessario troppo tempo. Una menzione doverosa per i librettisti Illica e Giacosa, preziosi linguisti e coautori. Una buona edizione: ovviamente quella con la Callas, insieme a Gedda nel ruolo di Pinkerton, sotto la direzione di Von Karajan.
Q.E.D.

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